Credo di aver sentito parlare per la prima volta della Chiave a stella di Primo Levi nei locali del Lingotto a Torino. Era la tarda primavera di un anno di cui non ricordo la data, ma che doveva essere dopo la mia laurea, e al Lingotto si teneva un importante convegno sulla letteratura industriale.
Ricordo che era prevista una relazione di Giulio Lepschy, un importante linguista dal cognome misterioso. O forse misteriosa era la borsa di cuoio che lui portava con sé perché a un certo punto, interrompendosi di parlare, la aprì e tirò fuori un arnese di metallo. Da lontano non si vedeva bene cosa fosse. Non ho mai avuto dimestichezza con gli attrezzi da meccanico o da falegname, però si trattava di un utensile particolare, luccicante e lungo, chiaramente legato al nome del libro di cui stava parlando Lepschy. A me colpì il gesto originale: anziché argomentare in lungo e in largo per spiegare ai presenti cosa fosse questa chiave a stella, la esibiva a mo’ di trofeo, impugnandola dalla barra come avrebbe fatto un operaio.
«Eccola qui. È questa!»
«Eccola qui» diceva Lepschy. «È questa!». I presenti lo osservavano quasi si fossero trovati di fronte un venditore da fiera perché i gesti del professore erano contenuti ma plateali, l’attrezzo non doveva passare inosservato e quella breve dimostrazione evidentemente faceva parte della conferenza, anzi doveva essere una parte imprescindibile. A me, infatti, capitò di non seguire più le parole del relatore, ma di continuare a pensare alla chiave a stella anche quando Lepschy la poggiò sul leggio e tornò a riprendere in mano i fogli. Pensavo a quante mani di operai avessero stretto quel genere di arnese, in quel luogo dove avevano funzionato le catene di montaggio della Fiat per i primi decenni del Novecento. Pensavo all’enorme famiglia di chiavi che erano state inventate – a forchetta, a bussola, a croce, a tubo, a pipa, a cricchetto – e a come doveva essere faticoso il mondo prima che qualcuno le avesse brevettate.
La relazione di Lepschy si chiuse negli applausi, ma io avevo continuato a distrarmi facendo mille illazioni sui bulloni e i dadi, sulla perfetta aderenza – quasi uno sposalizio – che le pareti interne dell’anello stellare (si chiamava proprio così: anello, proprio con il linguaggio dell’amore) dovevano dimostrare quando erano chiamate al difficile esercizio della torsione. Mi ero perso tutta la scienza linguistica di Lepschy, però in compenso avevo guadagnato quel sentimento di una disciplina manuale, che mi sarebbe rimasto dentro, anche se inesplorato. Un matrimonio mai consumato, ma celebrato.
Tempo dopo in libreria
Non ricordo quanto tempo passò dal convegno al Lingotto al giorno in cui, in una libreria del riuso, trovai una copia della Chiave a stella pubblicata da Einaudi in una collana per la scuola media: sfondo bianco, tre righe rosse orizzontali e al centro un disegno con una mano guantata che stringe l’utensile. «Eccola qui» mi sono detto, ripetendo le stesse parole di Lepschy. Comprai il libro e impiegai poche ore a leggerlo.
Libertino Faussone, il protagonista che si faceva chiamare Tino per comodità dallo scrittore con cui conversava in una mensa dell’est sovietico, montava e smontava gru metalliche, ma si sentiva un dio della meccanica, un dio con il vizio di arrampicarsi fino in cima a quei mostri di equilibrio con il suo attrezzo prezioso. La chiave a stella è la voce di un orgoglio operaio. Pareva impossibile scrivere un romanzo su un arnese, eppure Primo Levi era riuscito a farlo. Il segreto stava tutto dentro il metallo di cui era fatta la stella poligonale al termine dell’impugnatura ed era un qualcosa di inaudito perché solo chi non ha giocato con il Meccano non può capire la bellezza che si prova quando si mettono insieme i pezzi per costruire qualcosa.
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