PerfectBook incontra Tiziana Rinaldi Castro

Guida alla New York ribelle si legge agilmente e con piacere come un libro ricco di curiosità anche senza necessariamente andare a visitare o essere mai stati nella metropoli americana. L’autrice Tiziana Rinaldi Castro la conosce bene: abita a Brooklyn e insegna Letteratura greca antica alla Montclair State University. Ha così scritto un volume (abbastanza corposo ma godibilissimo, edito da Voland) in cui accompagna il lettore alla scoperta di quartieri, strade, piazze, locali, librerie, palazzi, gallerie e scuole attraverso le vicende e gli occhi di diversi “ribelli” (tra cui molti scrittori e artisti) che hanno trasformato quel luogo con ciò che hanno fatto. Una lettura che diventa esperienza aumentata grazie al fatto che ogni capitoletto, dedicato a un punto di interesse della città, termina con alcuni consigli per entrare meglio dentro il viaggio: un sito da consultare, un libro da leggere, una canzone da ascoltare o un film da vedere.
Per la nostra rubrica ReadYourLife l’abbiamo intervistata per conoscere come è nato questo originale tour per New York e quali emozioni lascia la “Grande Mela” in chi vi addentra.

Fotografia di Laura Razzano

Quanto c’è di ribelle nel suo animo per essere riuscita a scovare tutti i volti dei “ribelli” che costituiscono New York?

La mia attrazione per le storie di ribellione nasce da una profonda curiosità verso coloro che sfidano lo status quo per inseguire ideali, giustizia, bellezza, verità. New York è un palcoscenico perfetto per queste traiettorie fuori asse: è piena di figure che hanno scelto di non adattarsi, di agire controcorrente, di trasformare la città attraverso le loro visioni. Raccontare i “ribelli” di New York ha significato leggere la città in un modo diverso, che ha portato a risultati nuovi: seguendo le loro orme ho potuto vederla da prospettive mai passive, sempre vitali, in movimento. È proprio questo sguardo obliquo, irriverente, a rivelare i suoi luoghi più significativi. New York rispecchia in pieno — nel bene e nel male — lo spirito degli Stati Uniti: un Paese costruito sulla promessa di libertà e reinvenzione, ma segnato anche da profonde contraddizioni. E sono proprio i ribelli, coloro che non si accontentano, che scelgono di agire, a renderla riconoscibile nella sua essenza più autentica.

Molti luoghi sono visti attraverso la vita e gli occhi di diversi “ribelli” che hanno trasformato il luogo attraverso le proprie imprese e pensiero. Forse che i newyorkesi non amano restare troppo ancorati allo stesso “stato delle cose” e preferiscono ricercare un equilibrio sempre nuovo? E quanto questo atteggiamento è proprio di un Paese giovane come gli Stati Uniti?

New York è una città che non smette mai di mutare pelle. Non semplicemente perché cresce o si espande, ma perché si reinventa, spesso grazie a chi osa metterla in discussione, spostarne i confini, immaginarla diversa. Questa capacità di rigenerarsi è forse il tratto più emblematico del suo carattere e rispecchia in pieno, nel bene e nel male, lo spirito degli Stati Uniti: un paese giovane, sì, ma soprattutto animato da un’idea potente di possibilità, di futuro da costruire. In questa continua metamorfosi, sono spesso i ribelli — artisti, attivisti, outsider — a lasciare il segno più duraturo. New York, più di ogni altra città, sembra fatta apposta per accogliere e amplificare quelle voci fuori dal coro. Ma c’è anche qualcosa di più umano, quasi viscerale, in questo movimento perpetuo: la spinta a non accontentarsi, a rimettere in discussione, a cercare un equilibrio sempre nuovo. E forse è proprio così: riesce a restare se stessa proprio e solo cambiando senza sosta.

Facilmente New York è entrata e continua ad entrare nell’immaginario collettivo di chi sogna l’America e di chi la conosce solo attraverso le immagini di film e serie tv. Da cosa consiglierebbe di iniziare per conoscerla meglio oltre i luoghi comuni?

Per andare oltre i cliché, suggerisco di immergersi subito nella vita quotidiana dei residenti. Visitare librerie indipendenti, caffè locali, mercati rionali, partecipare a eventi di quartiere. New York si rivela davvero solo a chi la percorre con lentezza e attenzione, senza l’urgenza di “spuntare” luoghi iconici. Interagire con chi ci vive — ascoltarne le storie, coglierne i ritmi, le idiosincrasie — permette di accedere a una dimensione della città che non è immediatamente percepibile, e che difficilmente si lascia racchiudere in un’immagine o in uno stereotipo. La vera essenza di New York non è mai banale, è sempre sorprendente, proprio perché resiste — fieramente — alla concezione che se ne ha da fuori.

In questa guida la storia gioca un ruolo chiave per incuriosire il lettore. Come è avvenuta la ricerca delle informazioni e la stesura del libro?

La ricerca è stata un viaggio affascinante, stratificato, e spesso imprevedibile. Ho lavorato tra archivi, biblioteche, fonti digitali, ma anche parlando con storici locali, attivisti, curatori e cittadini comuni. Ho consultato fonti primarie e secondarie, con l’obiettivo non solo di raccogliere fatti, ma di cogliere intrecci, contraddizioni, sussulti. La scrittura è venuta dopo, come una sorta di montaggio narrativo, guidato dal desiderio di raccontare storie note e meno note, ridando voce a quei ribelli — talvolta celebri, talvolta dimenticati — che hanno lasciato una traccia profonda nell’identità della città. È stato un modo di entrare in dialogo con New York, ascoltarla nei suoi silenzi, nelle sue fratture, nei suoi slanci.

Qual è lo scorcio della città che preferisce e a quale brano musicale lo accompagnerebbe?

Ne ho più di uno: il Socrates Sculpture Park, nel Queens. Da lì si osserva Manhattan da una distanza inusuale e quasi malinconica, come se si potesse coglierne l’essenza senza esserne travolti. È uno spazio aperto, mutevole, attraversato da vento, luce e sculture che cambiano rapidamente. Se dovessi accompagnare quello scorcio con una musica, sceglierei Ruby, My Dear di Thelonious Monk: c’è in quel brano la stessa delicatezza, la stessa struttura irregolare, fatta di pause, esitazioni, sorprese, momenti di grazia. Come quella vista, è dolente e fiera, scomposta e perfetta. 

L’altro è la vista su Manhattan da Roosevelt Island. Anche lì la città si vede di lato — non nella classica skyline frontale come da Brooklyn — ma è molto più vicina, più nitida. La si osserva in modo ravvicinato ma senza immersione, con una calma quasi irreale. Si coglie il profilo continuo della Midtown east lungo l’East River, in un silenzio che crea spazio per lo sguardo.

E poi c’è il ritorno da Roosevelt Island a Manhattan con il tramway, soprattutto al tramonto, quando si accendono le luci della sera. In quel breve tragitto sospeso sull’acqua e sui tetti, la città si rivela in tutta la sua potenza visiva. Tutto — architettura, luce, movimento — si ricompone in un’immagine mozzafiato. È un momento intenso, quasi cinematografico, in cui si rientra nel corpo vivo di New York portandosi dietro lo sguardo esterno appena avuto.

Probabilmente, a questo punto, anche a voi lettori è venuta un’irresistibile voglia di andare a New York!

E guardi, le sembrerà strano, ma a quel momento associo una musica che, superficialmente, ha poco a che vedere con l’immagine: Fanfare for the Common Man di Aaron Copland. Non ha il passo metropolitano, né l’urgenza jazzistica della città. Ma c’è in quella fanfara qualcosa di solenne, di essenziale, di aperto — una specie di dichiarazione di fiducia nella dignità quotidiana, nella forza silenziosa di chi costruisce la città con il proprio gesto ordinario. Quella discesa a Manhattan, vista dall’alto, con le luci che si accendono una a una, mi fa pensare a loro. Alle persone comuni che ogni giorno, pur senza clamore, rendono possibile questa città.

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