“Sono qui per fare domande”. E per ascoltare le risposte. Giulia Muscatelli, nel libro Io di amore non so scrivere edito da Add, scrive di amore con le parole dei ragazzi, degli adolescenti che incontra nei luoghi in cui si radunano, aule scolastiche ma anche spazi ricreativi. Ci sono tante visioni dell’amore, tante esperienze, tante speranze e tanti timori. Un coro di voci che l’autrice torinese ha registrato con rispetto, senza mai cadere in facili giudizi, e ha poi assemblato permettendoci di dare uno sguardo al mondo dei giovanissimi e al loro approccio all’amore e alle relazioni.
L’abbiamo intervistata per la nostra rubrica Incroci Letterari, una bella chiacchierata!
Come hanno accolto la tua presenza e le tue domande questi adolescenti? Com’è stato relazionarti con loro?
Da subito erano un po’ diffidenti, forse meglio dire “seri”. Pensavano fossi l’ennesima esperta arrivata per spiegare loro la vita. Quando invece hanno capito che non avrei fatto altro che ascoltarli e stimolarli a raccontare storie, si sono aperti in una maniera sorprendente. Mi hanno confidato segreti e paure, sembrava ci conoscessimo da anni.
Poi, ovviamente, ci sono stati quelli con i quali non sono riuscita ad entrare in contatto; è normale, siamo persone, a volte ci piacciamo altre no.
Il titolo suona come una confessione: “Io di amore non so scrivere”. Per questo hai fatto scrivere i ragazzi, chiedendo loro di volta in volta di buttare giù qualche riga? Peraltro da ciò che riporti sembra che lo abbiano fatto volentieri. È così?
Il titolo è una dichiarazione di intenti, un modo per dire al lettore “qui non troverai indicazioni per vivere la vita o insegnamenti calati dall’alto ma storie”. Volevo fosse chiaro il mio atteggiamento rispetto all’argomento e il metodo di lavoro.
È stata un’indagine prima di tutto su me stessa, sui miei limiti e le mie difficoltà. Ho chiesto a loro di scrivere d’amore perché io non ne sono capace e ho sperato di imparare. In molti hanno scritto volentieri, altri si sono rifiutati di farlo: io non ho mai obbligato nessuno, se vedevo che non avevano voglia li invitavo a fare altro o a uscire. Non sarebbe stato giusto costringerli a un tempo di confessione che non sentivano appartenergli.
Avendoli frequentati per cinque mesi, puoi affermare che, alla fine, i ragazzi sono sempre gli stessi? Che sono come noi eravamo alla loro età? Con le stesse paure, gli stessi slanci? Incompresi e svalutati dagli adulti?
Posso affermarlo per quello che ho visto ma dicendolo già mi sento disonesta. A me sembrano uguali a come sono io, a come siamo noi; tuttavia, trovo ingiusto il paragone, un metodo di valutazione che ci porta inevitabilmente a cedere alla tentazione di definire ciò che non comprendiamo.
Ci sono due capitoli, “L’amore: roba da maschi” e “L’amore: roba da femmine”: sono universi separati?
Per quello che ho visto io, lo sono ancora. Mi è dispiaciuto constatarlo e mi ha sorpreso, pensavo che fosse una barriera superata.
In alcune pagine troviamo storie di legami problematici, di pregiudizi omofobi o sessisti che affiorano a volte inconsapevolmente. Quanto deve preoccupare questo secondo te?
Deve preoccupare molto ma soprattutto deve farci attivare. Se ancora esistono omofobia e più in generale disuguaglianza la responsabilità è nostra, di noi adulti, mia, tua, di tutti noi.
Dobbiamo attivarci a riguardo, capire come aiutare le persone più giovani a costruire insieme a noi un mondo più giusto; o forse sarebbe più corretto dire che quel mondo tocca a noi costruirlo per loro, anche se credo che si costruisca sempre insieme, che in gruppo le fondamenta si ergono meglio.
“Quando entro in una stanza non penso mai che insegnerò qualcosa ai ragazzi, né che li renderò migliori” scrivi ad un certo punto, ed è l’atteggiamento che mantieni sempre durante gli incontri. Tuttavia, a distanza, dopo averli ascoltati e conosciuti, quale consiglio, suggerimento, incoraggiamento vorresti dar loro?
Cambiate spesso taglio di capelli, sorprendetevi di voi stessi.
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