Con un sottofondo di risate a sfottò preso da qualsiasi telefilm americano degli anni ’80 e ’90, ho deciso di iniziare l’anno nuovo impostando il goal di libri da leggere nel 2021 su Goodreads.
Immagino di aver avuto anche l’espressione furba di Steve di Otto sotto un tetto mentre scrivevo “35” nella apposita casella: come no!, ha esclamato il mio pragmatismo dando qualche pacca sulla spalla all’autostima, garantito che ce la fai. Che vi devo dire, l’ottimismo è il sale della vita e magari finalmente imparerò a leggere senza soffermarmi a pesare ogni parola e ogni frase e ogni capitolo; d’altronde, come ho già scritto altre volte, preferisco generalmente i saggi alla narrativa, e quelli a leggerli spediti mi sembra di fargli un torto.
Il fatto è che il mio ego di lettore affronta il 2021 ringalluzzito dai primi due libri e mezzo letti in meno un mese – imbroglio, uno non l’ho ancora finito ma solo perché me lo sto centellinando: Cuore di tenebra non è certo un monolite di foliazione, ma è denso di meraviglia e di wow sparsi, così sto cercando di farmelo durare. Tanto quando leggerete queste pagine sarà finito. Del GGG, in lettura con Emilio poco alla volta prima di dormire, siamo a tre quarti e nel weekend finiremo anche quello.
Invece il terzo, quello iniziato e finito a morsi rabbiosi la prima settimana di gennaio, ecco: in realtà è di lui che volevo parlarvi. Si tratta di Mosca-Petuškì: poema ferroviario, dello scrittore sovietico Venedikt Vasil’evič Erofeev, edito da Quodlibet (un editore che mi fa letteralmente impazzire).
L’ho comprato come si dovrebbero comprare i libri migliori: rigorosamente a caso. Copertina bella, citazione in quarta che fa drizzare le antenne, nome di richiamo alla traduzione – nella fattispecie Paolo Nori, che seguo praticamente dagli esordi e che tra alti e bassi mi accompagna nel mio ruolo di lettore da oltre vent’anni. La storia, se possiamo parlare di una storia, è riassumibile (o impossibile da riassumere) in poche righe: è il viaggio folle e tragicamente alcolico del protagonista e narratore, ubriaco sin da prima di raggiungere il suo treno. Alla stazione, beve e si carica di bottiglie più qualche regalo per la donna, salvezza e demonio, che deve raggiungere al capolinea del viaggio. Lungo la tratta, beve di più. Ad ogni stazione, esagera un tantino oltre a poco prima, e con lui l’improbabile truppa di viaggiatori con cui condivide lo scompartimento – persino il bigliettaio, invece di controllare i biglietti, dispensa multe non in rubli, ma in vino rosso. Nel mezzo angeli fuorvianti, colpi di stato improbabili, feste, allucinazioni, di tutto… non vi spoilero niente, ma è una lettura straniante, in bilico continuo tra angoscia e sarcasmo, e a quanto pare un caposaldo della “letteratura proibita” sotto la bandiera dell’URSS. Diffusissimo come le audiocassette pirata di Vladimir Semënovič Vysocki (cercatelo!), Erofeev è arrivato in Italia con questa nuova traduzione. Ed ecco, qui arriviamo al tasto scordato del pianoforte, quello che stride battendo. Non mastico granché il russo, non sono troppo ferrato in letteratura sovversiva sovietica, ma la sensazione attraverso tutte le duecento e qualcosa pagine è di leggere un libro di Paolo Nori. Usando un eufemismo, in fase di traduzione ha calcato un po’ troppo la mano, tanto che nei costrutti delle frasi talvolta fa capolino il suo peculiare stile parlato, e qua e là irrompono persino termini e intercalare dialettali che hanno quasi un tono di voce preciso.
Ecco, rispetto al Conrad di Einaudi di cui parlavo prima, su cui Rossi e Sertoli si tengono fedeli a uno stile e direi anche a un’epoca precisa, siamo su tutt’altra cifra, decisamente due scuole opposte. Non sono certo un esperto di traduzione, confesso, ci sto attento e scelgo anche in base a quello come più o meno tutti; ma una presenza così invasiva del traduttore accende ovvie domande sullo stile, la resa, il rapporto col lettore. Mi veniva quasi da zittirlo, il mio Nori, dirgli Ehi, di’ sottovoce che sta parlando l’altro. No buono, proprio no. Solo che appunto, la mia è un’opinione nel mucchio: magari invece per voi rinnovare un testo con una voce speciale ha un senso e un valore, e lo capirei: alla fine il Poema ferroviario rimane un capolavoro e chissà, l’avessi letto in una traduzione più fedele e “dimessa” forse non mi avrebbe dato la stessa scarica di potenza.
Insomma, come sempre vi chiedo: come desiderate che sia una traduzione? Cosa notate prima in un testo tradotto? A voi la parola, ma che sia di vostro pugno!
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