“Sono grata per tutte le cose che mi sono successe”. Esordisce con queste parole Kim Phúc, e le pronuncia con il sorriso che raramente le lascia le labbra. Parole straordinarie e incredibili, vista la sua storia. L’abbiamo incontrata al Campus Onu di Torino sabato 5 ottobre, dove ha presentato il suo libro.
Nata cinquantasei anni fa a Trang Bang, in Vietnam, Kim è diventata famosa suo malgrado grazie alla foto scattata l’8 giugno 1972 da Nick Út, per tutti simbolo del ventennale conflitto che ha colpito la sua terra. Kim Phúc è stata immortalata per sempre a braccia spalancate, nuda, in fuga dalle bombe al napalm che le hanno lasciato un segno perenne sulla pelle e nell’anima. Dopo lo scatto Út l’ha portata all’ospedale dove, salva per miracolo, ha incominciato le cure, lunghe e strazianti sotto vari punti di vista. I medici l’avevano avvertita del fatto che il dolore sarebbe sempre stato intenso, ma spesso era più lancinante sentirsi brutta, non amata, incapace di compiere i movimenti più elementari. Molte persone non si riprendono più dalle ferite che stravolgono corpo e mente e anche Kim Phúc ha avuto momenti di buio e disperazione. Il fuoco addosso (edizione italiana Scripsi) è il libro che racconta la sua storia, fatta anche di peregrinazioni da un Paese all’altro: Vietnam, Cuba, Canada. “Scrivo solo adesso perché è adesso che mi sento pronta”, dice. Anni fa uscì un libro sulla sua storia, “La bambina della fotografia”, della scrittrice canadese Denise Chong.
“Ero una vittima della guerra. A diciannove anni ho trovato la speranza attraverso la fede in Gesù Cristo e questa per me è stata una svolta”, racconta. “Ho cominciato a confidare in Dio; il percorso ha richiesto molto tempo, ma ora ho speranza, pace e perdono”.
La speranza è quella che vuole comunicare ai bambini che incontra come Ambasciatrice UNESCO di Buona Volontà e durante le missioni della sua associazione non lucrativa Kim Foundation International. Quando li incontra li incoraggia a non lasciarsi andare, portando la propria vicenda ad esempio; anche lei è stata travolta dalla guerra, aveva nove anni quando le bombe l’hanno colpita quarantasette anni fa. “Dovete avere un sogno e fare sì che sia grande, ma soprattutto, accettare che le persone vi aiutino”, dice ai ragazzi in Uganda, Ghana e negli altri Paesi in cui l’associazione opera. Le ferite lasciate dal napalm le hanno causato indicibili sofferenze poiché ha subito dolorosissimi bagni medicati, ha avuto riduzione di mobilità agli arti ed è stata operata diciassette volte. “Non avrei mai voluto rimanere nelle tenebre come vittima di guerra. Oggi per fortuna so qual è lo scopo della mia sofferenza: aiutare le persone, i bambini in difficoltà, dare speranza attraverso la mia vita”.
La pace l’ha trovata, Kim Phúc, ma i segni della guerra non si sono cancellati negli anni. “Ho ancora incubi, evito la visione di film di violenza e guerra. Non mi permetto di pensare cose negative. Convivere con le cicatrici mi ha fatto crescere con l’idea che non avrei mai avuto un ragazzo, un marito, una vita normale. Ero nel torto: oggi ho un marito, due figli e due nipotini. Ma non è successo per caso, ho dovuto lavorarci e crederci”.
Negli anni la bambina della fotografia ha imparato anche quella che è stata la lezione più difficile: il perdono. “Da bambina, a nove anni, sapevo di non aver fatto nulla di sbagliato: perché dovevo soffrire così atrocemente? Sono stata vittima anche della fama, che non ho scelto… Aprendo la Bibbia un giorno ho letto “ama i tuoi nemici”. Quant’è difficile! Ci provo ogni giorno, per esempio smettendo di chiedermi “perché a me?”, invece di chiedere aiuto, confidando in Dio, essendo positiva. Ho fatto una lista delle mie benedizioni, così lunga che ci metterei un mese a leggerla tutta. Non ci avevo mai pensato: la prima benedizione sta nel fatto che, mentre i miei vestiti e la mia schiena erano in fiamme, i miei piedi erano intatti e mi hanno permesso di correre e di salvarmi. Ho imparato a perdonare e il mio cuore è stato libero”.
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