Un ragazzo isolato, la guerra, un bosco misterioso e incantato. Sono gli ingredienti che mescolati sapientemente da Aldo Simeone danno vita ad un romanzo bello e profondo: Per chi è la notte, edito da Fazi. Nel bosco, fulcro del romanzo, è vietato entrare, perché abitato dagli streghi. Essi sono spiriti che vagano con l’indice acceso da una fiamma e se incontrano qualcuno non lo fanno uscire dal loro regno a meno che non sappia rispondere alla domanda “per chi è la notte?”.
Francesco è attratto dal bosco come da un magnete e vive in cerca di equilibrio, senza riuscire mai a capire cosa sia vero e cosa sia giusto: ma la vita è difficile, quando hai undici anni, tuo papà è scappato per non combattere e tutti evitano la tua famiglia. A chi dare retta? Alla nonna, ai tedeschi, a Secondo che è già grande, a don Dante, a Tommaso? Francesco crescerà tra dubbi e paure, cercando un senso alle cose in un mondo dai confini evanescenti, tratteggiato in maniera realistica ed onirica insieme.
Aldo Simeone ci aiuta ad entrare nelle pagine del romanzo, in cui la durezza della guerra si alterna al mistero di un bosco con mille segreti e alla dolcezza dell’amicizia e dei rapporti umani.
Per chi è la notte è un romanzo che parla di un ragazzino, Francesco, figlio di un disertore e per questo emarginato, ed è ambientato durante la Seconda guerra mondiale. Lo possiamo definire un romanzo storico o di formazione? O forse, meglio ancora, una fiaba?
Romanzo storico, di formazione, di mistero, onirico, fiabesco, ascrivibile al realismo magico, al gotico rurale… sono varie le categorie applicabili. A me piace pensare che rientri in tutte, ma ci stia un po’ scomodo, che resti scoperto prendendo freddo. Non perché disdegni i generi letterari, o perché m’interessi «farlo strano» e differenziarmi a tutti i costi. Piuttosto, ho sempre pensato che, in letteratura, il senso stia nelle incongruenze, nelle contraddizioni. Al contrario della matematica, la letteratura riesce quando i conti non tornano. Vorrei che, alla fine del romanzo, il lettore si domandasse: l’interpretazione storica degli eventi spiega tutto? E quella fantastica?

Il paese in cui vive Francesco, Bosconero, è un luogo magico ispirato ad una vera località della Garfagnana. Quanto è importante la scelta dell’ambientazione del romanzo?
Fondamentale. Ho iniziato a scrivere solo dopo aver trovato il luogo giusto. Ci sono capitato per caso, in un fine settimana d’autunno: Minucciano, Garfagnana. Gente del posto mi ha parlato di Fabbriche di Careggine, il paese sommerso che torna alla luce ogni dieci anni: giace sul fondo nel lago di Vagli come una figurina dentro una palla di vetro con neve. Ho attraversato il bosco del Fatonero, in cerca di funghi (ah, i porcini della Garfagnana!). Ho visto la magia tremolare insieme alle lucciole (come queste, ormai confinata in luoghi remoti). Solo in quel momento le idee confuse che avevo in mente hanno iniziato ad addensarsi in una storia, e hanno agganciato la Storia con la esse maiuscola.
Il bosco che segna i confini del paese è incantato perché abitato dagli streghi, fantasmi notturni. Per queste inquietanti presenze e a causa del coprifuoco, è proibito entrarvi. Che cosa rappresenta il bosco, così spaventoso e affascinante, per Francesco?
Ci sono archetipi che trascendono il dato reale e parlano all’inconscio, o a un livello ancora più profondo dell’io: la memoria di specie, le nostre origini ancestrali. Il bosco è uno di questi. È il mistero e il richiamo, perché pieno di pericoli ma anche di risorse che l’uomo da sempre ha sfruttato per sostentarsi. Non è un caso che la foresta sia la cornice fissa del maggior numero di fiabe (e delle più terribili). Da bambini, poi, si è più istintivi, più sensibili a cogliere la voce muta delle cose. Per Francesco il bosco è un nemico perché ha inghiottito suo padre, perché isola il paese e gli toglie la vista dell’orizzonte, perché brulica di paure leggendarie, ma anche un gigantesco enigma da esplorare. Non a caso, il suo più grande desiderio è “scalarlo”, costruendoci una casa sull’albero.
Il libro suscita molte domande e stimola riflessioni su temi diversi, dall’amicizia alla storia. Troveremo risposte? Troveremo tra le pagine la risposta alla domanda del titolo?
La risposta c’è, ma un po’ nascosta, come gli indizi nei gialli della Christie. Sfido il lettore a scovarla. Ho sempre trovato intriganti e divertenti quei romanzi in cui l’autore gioca con il suo pubblico, ingaggiando con esso un rapporto “dialettico”. La narrazione è comunicazione; il lettore non è un attore secondario. Ma voglio avvertire fin da subito che la risposta da me fornita alla domanda del titolo non è quella tramandataci dalla tradizione garfagnina («Per me, per te e chi non può andar di dé», ovvero di giorno); è una mia personale rielaborazione. Avevo bisogno di una risposta non meno enigmatica della domanda.
A chi consigli di leggere il libro?
Se non sembrasse a scopo di lucro, direi «a tutti», e lo penso davvero. Tutti siamo stati bambini. Tutti lottiamo con le paure. C’è un bosco per tutti. Per tutti esiste un confine segnato dai fossi. Ma voglio intendere questa domanda in senso stretto, e risponderò: soprattutto ai lettori della mia generazione, che fino a pochi anni fa stentavano a entrare nel target del mercato editoriale. Le case editrici avevano in mente un pubblico più adulto, nato e cresciuto con stimoli culturali molto diversi dai nostri. Finalmente gli adulti siamo noi, ora: quella che chiamo la «generazione di Zerocalcare», temprata al martellamento di film, telefilm, romanzi, cartoni animati, fumetti americani (e secondariamente giapponesi). Le prime prove artistiche e letterarie dei miei coetanei erano forse imitative. Ora non più. Si stanno affermando un linguaggio originale e uno sguardo nuovo sulla realtà, che abbatte i pregiudizi di genere e i compartimenti stagni tra la cultura alta e pop. Il grande faro di questo trapasso è ancora una volta americano: Stephen King. Per anni è stato sdegnato dall’élite culturale perché imputato di un grave crimine: scrivere solo storie. Ahi, i corsi e ricorsi! Quando il cardinale Ippolito d’Este, nella Ferrara del Cinquecento, diede una leggiucchiata all’Orlando furioso, si racconta che salutò così l’autore: «Ma dove le avete trovate, messer Ludovico, tante corbellerie?».
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