Il guardiano della collina dei ciliegi è un romanzo (edito da Fazi) molto evocativo, che parte da una storia vera: Shizo Kanakuri è un maratoneta olimpico giapponese che ottenne il tempo di gara di 54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 32 minuti e 20 secondi. L’autore ha cercato di indagare non solo il fatto sportivo (la gara olimpica non fu portata a termine il giorno della competizione perché l’atleta scomparve), ma è andato alla ricerca dell’uomo cercando di ricostruire il suo sentire e il suo intorno. Per Shizo correre significa ritrovare un po’ di libertà, ma proprio in quella che sarebbe potuta essere la sua corsa più importante l’atleta prese una decisione: cambiare rotta. Così, non fece neppure ritorno a casa, ma si trasferì su un’isola diventando il custode della collina dei ciliegi. Il lettore resta incollato al libro dalla prima all’ultima pagina, entrando tra le pieghe della vicenda. Abbiamo pertanto voluto porre qualche domanda a Franco Faggiani…
Quale è stato l’elemento decisivo per cui hai scelto di raccontare la storia di un atleta che, per un verso, ha deciso di nascondersi al mondo per espiare quella che sentiva come una “colpa”?
Ho “studiato” il senso dell’onore nella cultura giapponese. E il fatto che sia tenuto in grande considerazione non è una leggenda. Allora come si può espiare l’onore perduto, esiste un modo personale per riconquistarlo? Con gran fatica, sofferenze e solitudine, ma anche con il contatto con la natura che trasmette serenità, Shizo Kanakuri ha dimostrato che è possibile chiudere i conti con il passato e riprendere a guardare il futuro.

In che modo hai deciso di miscelare realtà e finzione?
Mescolare realtà e finzione è stata, tutto sommato, una necessità. Della storia reale sono riuscito a scoprire solo l’inizio e la fine, ma non tutto quello che c’è stato nel mezzo, ovvero come ha vissuto Shizo Kanakuri, dove è andato, cosa ha pensato. Così sono stato “costretto” dalla narrazione a immaginare la sua vita, a ricrearla dopo aver risposto alla domanda: cosa avrei fatto io se fossi stato al suo posto?
Già dalle prime pagine emerge forte la vena descrittiva del tuo stile, che dà forza alla storia e all’ambientazione. Ci sono brani molto evocativi che raccontano il paesaggio giapponese e poi alcuni scorci dell’Europa. Come sei arrivato ad architettare così il tuo romanzo, a costruire parti tanto suggestive?
È sgorgata, quasi senza sforzo, la mia attitudine, o chiamiamola esperienza, al giornalismo esplorativo, quello che in passato mi ha fatto viaggiare a lungo in molti Paesi, anche lontani. Poi ho scritto sempre di natura e fin dall’adolescenza ho attraversato boschi, vallate e creste solitarie, spesso fuori stagione e in solitudine. Tutto questo mi è rimasto dentro, ha aiutato a creare uno “stile descrittivo” che ormai mi identifica. E non è che la cosa mi dispiaccia!
Caparbietà e senso del dovere, serietà e rispetto sono caratteristiche di Shizo, che lo aiuteranno a sfidare i propri limiti e allo stesso tempo a restare saldamente ancorato alle sue tradizioni e al suo Paese. In questo continuo movimento, tra gli eventi della vita (alcuni sorprendenti), lui che ha scelto di correre per sentirsi libero ricerca continuamente l’equilibrio. Quanto ciò è difficile per lui e quale insegnamento possiamo trarre dalla storia che hai scritto?
La corsa nella natura lo ha aiutato a trovare l’equilibrio e il contatto con i kami, le divinità della sua religione. E la natura sarà la sua grande consolatrice in tutti i momenti difficili. Personalmente la penso come Shizo: per dare un senso alla propria vita bisogna prendersi cura di qualcuno o di qualcosa. Di qualcuno (la sua famiglia d’origine o quella che si è poi creato) non è riuscito a prendersi cura, così si è preso cura di qualcosa, i sacri ciliegi, ritrovando speranza e futuro.
Nel libro hai inserito in modo ripetuto e chiaro elementi che sono fortemente identificativi della cultura giapponese e che appartengono all’universale collettivo, la figura dell’Imperatore e i ciliegi. L’uno pare richiamare una certa ufficialità e il legame con la Storia, l’altro una visione della vita più intimista e poetica che tende alla spiritualità. Due elementi che tuttavia sono legati tra di loro. È così?
Storia, tradizioni e spiritualità erano alla base della cultura giapponese dei primi del ‘900. E anche il desiderio o la necessità di una continua evoluzione. Questi quattro elementi ben intrecciati tra loro fanno sì che la società giapponese sia, per gli occidentali, di difficile interpretazione. Ci vuole tempo e applicazione. Per capire come funzionavano le cose in Giappone i giornali della prima metà del secolo scorso mandavano a Tokyo o nelle altre grandi città nipponiche non i giornalisti più bravi, ma grandi scrittori, affermati economisti, filosofi che stavano lì per molte settimane. Ma le loro relazioni finali si concludevano spesso con una frase simile a “la società giapponese è impenetrabile”. Vale anche il contrario; mi immagino un giapponese che arriva da noi, in Italia, e cerca di capire la società italiana dove valori, tradizioni e spiritualità si sono perse da un bel pezzo!
Shizo ha viaggiato tanto, con ritmi diversi ma sempre con consapevolezza. Quanto questo può contribuire a creare quella sensazione di dolce nostalgia che cogliamo spesso tra le pagine? Cosa rappresenta per te viaggiare?
Il viaggio, anche quello più faticoso, anche quello che siamo costretti a fare (l’andare in un posto dove non vorremmo andare) si porta sempre dietro la nostalgia. Alla fine di ogni viaggio ci sarà sempre qualcosa da ricordare o anche da rimpiangere. Il viaggio per me è un cocktail con molti buoni ingredienti: esplorazione, conoscenza, visione, ascolto e, di conseguenza, apprendimento. Viaggiare insegna a osservare, che è molto più di guardare.
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