Una malattia sconvolge sempre l’ordine delle vite in cui frana. Ma se la vita di prima tutto era tranne che ordine, la notizia della malattia può essere altro, non solo buio. Fabio Rizzoli nel suo romanzo d’esordio La vita in più edito da Mondadori mette nero su bianco ciò che essa porta con sé, nel male e nel bene. Il protagonista è un uomo insoddisfatto di sé: gli sembra di non avere via d’uscita, la relazione con la sua fidanzata è difficile, più che vivere sopravvive, annaspa. In questo caos esistenziale apprende di avere un tumore. All’improvviso viene travolto dall’esperienza dell’ospedale, della terapia, della sofferenza, ma il tutto per lui è soprattutto occasione per guardare alla vita con occhi diversi, meditare su di sé e sulle sue relazioni, ripartire da un punto morto. Rizzoli affronta un tema delicato con una scrittura chiara e a volte spiazzante nella sua schiettezza, che fa entrare il lettore dentro alle vicende e alle riflessioni del protagonista. Ecco l’intervista all’autore, le sue risposte ci aiutano a scoprire come è nato il libro e a comprendere meglio le emozioni che suscita.

Il sottotitolo del libro è “Una storia vera”. Come e quanto si intrecciano realtà e finzione nel tuo racconto?
La vita in più è prima di tutto un romanzo, e poi il racconto di una mia esperienza. Ma questa esperienza è vera, almeno in due i sensi: reale e autentica. Reali sono le vicende mediche e autentiche sono le reazioni che ho attribuito al protagonista. Fatto salvo questo nucleo, tutto quel che gli orbita attorno appartiene al romanzesco – dunque è sia vero sia inventato. Mentre scrivevo mi ponevo costantemente la domanda: è più autentico l’episodio autobiografico o quello deformato attraverso la narrazione? La risposta che mi sono dato è che talvolta il racconto di un fatto mai accaduto è più aderente all’identità di chi scrive rispetto a quello reale, perché è l’espressione del proprio mondo interiore. Quindi ho scritto tenendo a mente queste due strade.
Dopo qualche giorno in ospedale, un amico del protagonista, Massimo, gli propone di scrivere qualcosa su di lui: “vorrei catturare tutta ‘sta roba”, dice. Qual è stata la genesi di La vita in più?
Dopo un lungo periodo di silenzio narrativo dovuto principalmente ai miei problemi di salute ho deciso che era giunto il tempo di rimettersi a scrivere. Continuavo a cercare idee ma non me ne veniva in mente nemmeno una buona. Finché mi sono reso improvvisamente conto che avevo davanti a me una storia vera e intensa, anche se non diversa da quella, purtroppo, di tante persone. Il giorno stesso ho cominciato a scrivere. La prima versione del romanzo era di 320 pagine. Per arrivare a quella attuale (poco più di 160 pagine) ho impiegato un anno di rifiniture.
Nel libro ci sono alcune belle pagine di un dialogo con tuo padre e un particolare momento di unione e comunione con i tuoi genitori che descrivi dicendo semplicemente: “Eravamo una famiglia”. La malattia, la degenza, la terapia hanno cambiato il rapporto con le persone a te più vicine?
Ha trasformato ogni cosa, incluse le relazioni. Un evento del genere non può non travolgere il mondo che circonda il malato. Nel mio caso è servito ad approfondire alcuni rapporti e ad aggiungerne di nuovi. Non mi è mai capitato di pensare “questa persona che credevo mi sarebbe stata vicina al momento del bisogno è sparita”, semplicemente per il fatto che non è mai accaduto. Anzi, mi sono ritrovato sommerso da un affetto che non mi aspettavo di ricevere, e che soprattutto non sentivo di meritare. Questa manifestazione d’amore mi ha commosso al punto tale da aprirmi molto di più alle persone, e a considerare i rapporti umani come la cosa in assoluto più preziosa.

Il protagonista, inoltre, riscopre una spiritualità che con gli anni credeva di aver perso, “sospinto da una rivelazione che mi aveva lasciato intravedere di quanta gioia è fatta la vita”. È stato così anche per te?
Sì, inevitabilmente. Circostanze come quelle che ho vissuto sospingono in modo naturale verso considerazioni che indagano il senso di tutto. Provengo da una famiglia cattolica, mi è venuto dunque spontaneo ricercare risposte nello spirito più che nella carne. Ho iniziato a concepire la vita come una storia il cui vero significato è comprensibile soltanto a posteriori, dopo il finale. La conseguenza di questa convinzione è che prima o poi si svelerà il senso della mia vita, quello che ricostruirà tutte le singole scelte prese nel corso dell’esistenza. Dunque, se un senso c’è e ci sarà, ho pensato che potevo – e per certi versi dovevo – fidarmi della vita, inserita in un contesto molto più ampio, universale.
Nella narrazione vengono affrontati con sincerità non affettata argomenti intimi: le relazioni con le donne, i dettagli della vita quotidiana di un malato, le riflessioni sulla vita, sull’essere vivi. Quanto è difficile scrivere di argomenti come questi, mettersi a nudo?
Come dicevo, il mio è in primo luogo un romanzo, e come tale si fonda sulla costruzione di un personaggio, il protagonista. Non tutto ciò che concorre alla definizione della sua identità è autobiografico, ma è soprattutto funzionale alla storia. Ovviamente nel protagonista c’è moltissimo di me, nei suoi pensieri, nelle sue emozioni, anche se non tutto. È difficile parlare di se stessi in modo così schietto, ma lo ritenevo indispensabile, necessario. Il protagonista affronta le proprie debolezze e fragilità scatenate dalla malattia, non sarebbe stato onesto nei confronti del lettore occultare certi dettagli intimi che rendono però umano il personaggio, il che a mio avviso è fondamentale.
A chi consiglieresti la lettura del tuo libro?
A tutte le persone interessate a capire come un evento grave e inaspettato possa modificare l’intero universo di una persona. Il mio romanzo non riguarda soltanto l’esperienza di rinascita innescata da una guarigione, e dunque soltanto gli aspetti arricchenti pur in una tragedia. Ho preferito concentrarmi su tutto quel che generalmente si tace, perché credo che osservare le contraddizioni sia un modo profondo per capire la natura umana, costantemente oscillante tra bene e male.
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