#ilgrandenorddellenevi

Sarà stato l’ultimo inverno trascorso a casa vecchia, quando ormai tutto pareva aver smesso di funzionare (lo scaldabagno, le manopole della cucina a gas, i rubinetti del lavandino), come se la casa avesse capito che era arrivato il nostro momento di traslocare e volesse farci pagare lo sforzo di abbandonarla, manifestare il suo dissenso con gli inconvenienti tecnici che i miei genitori si rifiutavano di risolvere perché tanto – dicevano – da qui a poco ce ne andiamo, inutile spendere altri soldi; sarà stato in quella stagione di grande attesa e di vita spartana il tempo in cui si manifestò il fantasma di Jack London, lo scrittore dei boschi e della neve, lo scrittore della lotta tra l’uomo e la natura.

A puntate trasmettevano L’avventura del grande Nord. Non ricordo bene l’ora, ma credo fosse già imbrunire quando scattava la sigla, I wanna go, cantata dalla voce nasale di Orso Maria Guerini, e in tv scorrevano le immagini di un mondo dove mi sarei trovato a mio agio: le distese imbiancate del Klondike, la fila dei cercatori d’oro che si arrampicavano sulle montagne per raggiungere villaggi riscaldati da stufe e isolati nel bianco profondo dell’inverno. Una geografia di barbe nere e cappotti induriti dal freddo, un’umanità di solitudine e di silenzio, un continuo rincorrersi di slitte e cani che altro non era, quel mondo, se non un’estenuante altalena tra il cercare e il trovare, illudersi di avere le mani piene quando invece restavano perennemente vuote, dentro quelle baracche malamente riscaldate, senza amore e senza perdono.

Questo io vedevo nei visi tristi che comparivano come fantasmi evocati nei sogni, non appena cessavano le parole di I wanna go e affioravano gli abbai di cani o dei lupi, di cui Jack London aveva riempito le pagine dei suoi libri. Jack London era un uomo felice quando camminava avvolto nel suo cappotto di pelliccia, non gli importava di trovare l’oro e diventare ricco, piuttosto cercare se stesso nel fumo delle stufe a legna, nei visi pensierosi di chi gli stava intorno, nelle albe lente di quell’umanità che lottava contro il freddo, nelle zone più desolate della terra, per accarezzare niente più che pietre e speranza, pietre e delusione.

I wanna go cantava Orso Maria Guerini e quasi quasi mi convinceva il suo invito: I wanna go…, vorrei andare…, lasciami andare via… Quell’inverno anch’io avevo il mio Klondike da esplorare e, non appena la chitarra malinconica accompagnava le note iniziali della canzone, mi sentivo uno di quei cercatori senza passato e senza futuro, infreddoliti e immobili in quell’eterno presente che era la neve.

Anch’io stavo andando via.

Sapevo che avrei lasciato casa vecchia e per me significava assai più che intuire la vena di una miniera, forse uscire dalla preistoria di un mondo premoderno, di cui mi sentivo ancora parte. Prima però avrei dovuto sostare nell’anticamera di un mio Klondike e prendermi la parte di freddo nelle ossa, tenermelo a ricordo di quella solitudine morale per i giorni in cui mi fossi trovato dentro le rotte di un tempo agiato e cordiale, immemore di quel che ero stato e della neve che aveva conservato il mio sottosuolo nella sua innocenza. La preistoria della mia coscienza mi restituiva alla civiltà dove mi accingevo a entrare ancora avvolto dal candore primordiale del mio Klondike, bianco come il bianco della neve che aveva colorato la camicina ricevuta dalle mani del prete il giorno del battesimo, e mi affidava al tempo che sarebbe venuto a posarsi come nel rude sorriso stampato sulla faccia degli attori che giravano intorno al coraggio di Jack London. Adesso ero pronto. Magari non avevo pepite nelle tasche, magari sarei arrivato male attrezzato all’appuntamento con il mio andare, ma avevo visto il Klondike e i sogni che era stato capace di suscitare sulla facce della gente. Tutto sommato, pensavo, aver attraversato una preistoria era già una grossa fortuna. Quello poteva essere il mio oro, mi sarebbe bastato.

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