È stato suggerito dal cardinale Giacomo Biffi, una quarantina di anni fa, che esiste un potenziale parallelo tra Cristo e Pinocchio: entrambi sono figli di falegnami e appartenenti a famiglie anomale, entrambi con un padre putativo, uno però ha la madre certa, l’altro no. Come Cristo, infatti, anche Pinocchio ha avuto la sorte del profeta Giona, rimanendo tre giorni nel buio chiuso di una balena. Perfino la parentela esplicita con il legno è un elemento che li avvicina moltissimo, arrivando quasi a sovrapporne l’epilogo: tutti e due muoiono per rinascere a nuova vita.
La storia di Pinocchio non può non intrecciarsi con quella di un cristianesimo, da cui eredita due misteri: un tronco che racchiude un’anima immortale, quello di un burattino che si addormenta su una sedia per svegliarsi bambino. Non ho mai creduto alla retorica pedagogica di un Ottocento che ha letto nella storia del burattino il progetto trionfalistico di una nazione in cerca di cittadini onesti e bravi. Né ho mai pensato che la sua vicenda fosse quella esemplare del bravo italiano, tirato su a forza di precetti morali e di insegnamenti paterni.
Le avventure di Pinocchio sono anche questo, ma c’è qualcos’altro che tormenta la fiaba e la spinge oltre la soglia della fantasia edificante: dei consigli che mastro Geppetto, la Fata, il grillo parlante gli rivolgono, Pinocchio non sa che farsene, non li tiene in considerazione, non li ascolta. Più importante è che lui attraversi una serie di geografie inesistenti – la Città delle Api Industriose, il Paese dei Balocchi – e ne sperimenti le difficoltà. La prima è un luogo dell’efficienza e dell’ottimizzazione, dove tutti corrono, producono, concretizzano, scambiano. Il secondo è il luogo del divertimento puro e esasperato, il luna park dove ogni bimbo vorrebbe trovarsi.
Il problema è che Pinocchio ci arriva quando non è ancora diventato bimbo, al di qua cioè della soglia dell’umano che dovrebbe attraversare e che invece continua a respingerlo. I due non-luoghi appaiono come la manifestazione di logiche opposte: quella dell’homo oeconomicus e quella dell’homo ludens. Anch’esse, alla pari di tutti i precetti pedagogici e morali, poco gioveranno a Pinocchio. Il quale, se proprio deve approdare all’isola della propria umanità, dovrà farlo dopo aver assistito al naufragio della propria dimensione originaria.
Non si diventa uomini né con la religione del lavoro né con il disattivismo ludico, ma nel ventre della balena, quel non-luogo dove finalmente Geppetto ha trovato un surrogato di benessere e da cui non vorrebbe staccarsi più. Ci penserà il burattino a tirarlo fuori. Geppetto si limiterà a obbedire, come ha fatto all’inizio della storia, quando non è stato lui a cercare un figlio, ma è stato il figlio a sceglierlo come padre.
Nel mondo dove loro due andranno a vivere non ci sarà spazio per la memoria. L’acqua del mare ha lavato per sempre le scorie del passato che si portavano addosso, sottraendo ogni patina di nostalgia. Tocca a Pinocchio a salvare il padre (e non al padre educare il figlio) e, così facendo, salva se stesso.
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