#MontagneNelTreno

Ho amato quasi tutti i libri di Vittorini, li ho letti e riletti più d’una volta e sempre ci trovavo un qualcosa di nuovo: forse la condizione di esilio nella quale mi identificavo (io, lucano, trapiantato a Milano come lui), forse anche lo sguardo sugli uomini, quel misto di pietà e amore per la condizione degli umili che Vittorini chiamava “mondo offeso”. L’umanità che aveva ricevuto le offese della Storia mi ha sempre affascinato perché rappresenta la parte più fragile di noi, incarna la nostra debolezza.

Un libro in particolare, Il Sempione strizza l’occhio al Frejus, l’ho portato con me in valigia quando sono partito dal Sud per venire a studiare a Milano. È un romanzo dal titolo misterioso: perché due montagne dovrebbero ammiccarsi con gli occhi? E da che parte delle Alpi si guardano? Al tempo in cui il treno risaliva la penisola non lo sapevo bene: erano due montagne del versante occidentale e io le immaginavo perennemente piene di neve. Più tardi negli anni le avrei scrutate con i miei occhi e avrei sognato di salirci in cima, anche se non sono mai stato un alpinista. Stavano lì, come due pachiderma che non parlano ma si ammirano, sono complici di qualcosa. Da una di loro, il Sempione, partiva una strada che portava direttamente all’Arco della Pace, al centro di Milano.

Leggevo il libro nelle ore notturne, mentre il treno risaliva la penisola. Lo sferragliare delle ruote sui binari mi dondolava come in una culla, ma non avevo sonno. Vivevo dentro le pagine del romanzo, abitavo con i personaggi che sono gente umile, una famiglia che vive alla periferia orientale di Milano (in quella stessa Lambrate dove io sarei vissuto negli anni universitari) e non ha denaro per cibarsi se non quel poco che basta a comprare pane. Mangiano aringhe e pane, qualche volta verdura, raramente carne. E uno di loro, il nonno-elefante, ha una fame millenaria, assorbe oltre la metà delle risorse che servono alla famiglia. Questo nonno non parla mai, somiglia alle montagne del Sempione o del Frejus, se ne sta tutto il giorno in silenzio ad ascoltare i discorsi della famiglia o i ragionamenti di un operaio – Muso-di-fumo – che viene ogni tanto a fare visita. È un gigante dal corpo ingombrante questo nonno-elefante, è un peso la sua presenza e la sua continua richiesta di pane. Nessuno ha il coraggio di dirgli che mangia troppo, ma tutti lo pensano. Se ne rende conto anche lui e una notte, dopo aver ascoltato l’ennesima lite scoppiata in famiglia, decide di sparire. Il mattino dopo lo cercano per le vie della città, nella campagna che si apre a ridosso delle case, nel boschetto che circonda il fiume Lambro. Non si sa dove sia.

Come gli elefanti, il nonno ha deciso che era tempo di allontanarsi dal branco e morire da solo. Mentre arrivavo a Milano, ero quasi alla fine dei capitoli, le pagine scivolavano come acqua sulle pietre. Il treno entrava lentamente dentro la città, solo qualche minuto di ritardo, una sosta in una stazione al termine di una grande curva. Alzo lo sguardo e leggo il cartello sotto la pensilina: Lambrate, la stessa dove viveva la famiglia del romanzo. Mi affaccio al finestrino, cerco di allungare lo sguardo oltre i fili elettrici, verso una zona di alberi che a me era sconosciuta. Da che parte sarà il nonno-elefante?… Sono trentacinque anni che vivo a Milano. Sono andato via da Lambrate dopo aver concluso l’università. Ma io ancora lo cerco questo nonno-elefante, non mi voglio arrendere all’idea che sia morto e ogni tanto, quando ho tempo, arrivo a piedi verso Lambrate, oltrepasso la ferrovia, mi allungo in una zona dove i palazzoni hanno rimpiazzato il bosco. Dov’è il nonno-elefante? Lo troverò prima o poi, ne sono sicuro.

One Comment

  1. clara
    11 Febbraio 2016
    Reply

    Sfacciatamente bello e malinconico!!

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