#leisoledeldissensonelmarebianco

Lo stesso anno in cui in Italia si discuteva sul referendum pro o contro il divorzio, arrivò sulla scrivania di mio padre un libro dalla copertina rossa e con un titolo dal valore geografico: Arcipelago Gulag.

Dell’autore si segnalava solo il cognome – Solženicyn -, cosa di per sé anomala rispetto a quanto avviene di consueto e questo elemento non faceva che generare domande su domande: da dove veniva lo scrittore dal nome non necessario? Come mai sulla copertina si vedevano soldati nella neve e filo spinato se invece il termine arcipelago serve a indicare isole?

Qualcosa sfuggiva e mio padre, che di quel libro fu il primo lettore, non si perdeva in troppe esternazioni, limitando le sue reazioni a qualche breve commento: poveretto questo Solženicyn, che sofferenza, che sofferenza… In effetti non gli si poteva dare torto perché nelle foto lo scrittore aveva un volto allungato nelle rughe, lo sguardo serio e malinconico, gli occhi disincantati e una corona di capelli che sorgeva quasi in cima alla curva del cranio, lasciando scoperta la fronte e un tratto esteso della regione oltre la fronte.

Quando vedevo il volto di questo scrittore, capivo che la neve, il filo spinato e i soldati presenti sulla copertina avevano contribuito a rendere più profonde ed estese le rughe sulle pelle, restituivano un’immagine di una terra vasta e innevata, da dove ogni tanto affioravano dei recinti che assomigliavano a isole, vedendoli da lontano, ma non lo erano, isole scure in un mare di bianco, approdi non felici e sognati. Tanto più che mio padre pronunciava spesso una parola quando mia madre chiedeva cosa pensasse del libro: Solženicyn era uno scrittore del dissenso e il dissenso portava i segni del freddo in un momento dell’anno in cui ci si avviava all’estate, quasi a procurare in noi un sentimento di inadeguatezza – noi pensavamo al caldo ma c’era una parte di umanità che era rinchiusa in un’isola irraggiungibile in mezzo alla neve, sorvegliata da soldati con fucili.

Il dissenso, di cui parlava mio padre, a me giungeva con l’urgenza di una questione che non era soltanto intellettuale e letteraria. Non alludeva a una ribellione – una rivoluzione, nella nazione dov’era nato lo scrittore, era già avvenuta e poteva bastare – eppure conteneva lo stesso qualcosa di irruento, come se l’arcipelago di cui recitava il titolo fosse qualcosa da cui fuggire, certo per la neve, certo per i fucili e il filo spinato, ma anche perché per quel suono così incomprensibile e pericoloso, contenuto nel termine gulag: cinque lettere come isola, ma diversamente da isola (che ha tre vocali e due consonanti) qui le consonanti predominano.

La letteratura del passato mi aveva raccontato la favola che alle isole si arrivava per starci meglio: all’isola Utopia di Tommaso Moro, all’isola Bensalem di Francesco Bacone. Solženicyn adesso ci diceva che i mari non erano più azzurri e da territori straordinariamente felici quei luoghi erano diventati un inferno di ghiaccio.

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