#imieifantasmi

Mia madre era appassionata di cronaca nera. Non si perdeva una puntata di Telefono giallo, Storie maledette, Ombre sul giallo. Non disdegnava neppure Ultimo minuto e Misteri (ricordo la sigla da brividi: una versione elettronica dell’aria della Regina della Notte). Qualche volta guardava anche Chi l’ha visto?, ma riservandogli l’occhio e l’orecchio sinistro.

Il suo cuore, infatti, batteva per Franca Leosini. «È bravissima», diceva per passarmi il tifo.

Mi passò la paura.

Aldo Simeone

Nato sotto il segno del cancro e figlio di mamma cancro, ero un bambino pauroso, frignone. Memorabili le mie crisi di pianto davanti a Un maggiolino tutto matto (quando il macinino del titolo perde i pezzi per strada in una gara di velocità) e a E.T. (ahi, la scena della bicicletta volante!). Riuscii a trovare straziante perfino Dumbo. Figuriamoci come potevo reagire dinnanzi ai programmi più amati da mia madre.

Incubi. Mostri. Fantasmi. Camera mia ne era piena. Li battevano in numero solo le lucine notturne attaccate alle prese della corrente.

Ricordo tuttora una puntata di Ultimo minuto in cui un bambino era rimasto incollato con la lingua al freezer. E il caso di un giornalista che si era recato in una certa strada provinciale, frequentemente soggetta a incidenti, sulle tracce di un fantasma avvistato da molti testimoni. Alla fine, riuscì a vederlo (si riesce sempre a trovare quello che si cerca). E ovviamente lo vidi anch’io.

Per giorni si sostituì alle tende della mia camera.

Sapendomi suscettibile, mia mamma dopo cena mi mandava a letto, nell’errata convinzione che proteggermi dalle paure volesse dire nascondermele. Ma c’è qualcosa di più spaventoso delle «scene forti»: le «scene forti» immaginate. Mi raggiungevano ovunque fossi. I suoni della televisione in cucina trovavano il modo d’infilarsi nel mio sonno e vampirizzarlo. Oppure i bagliori dello schermo, ectoplasmatici. O ancora il silenzio: più di ogni altra cosa, quel silenzio gravido di suoni. Brusii, scricchiolii, scalpiccii, cigolii.

Se ne potrebbe presumere che io abbia maturato, da grande, la repulsione per i delitti e i misteri, per gli horror e i fatti di cronaca al cardiopalma. Il contrario.

In fondo a ogni paura, c’è un desiderio. Quello che davvero ci terrorizza… ci attrae. Guardare in fondo ai pozzi. La vertigine dell’altezza. La vita dopo la morte. Mostri che sia possibile riconoscere e sconfiggere. L’intelligenza del male, neutralizzabile come un problema di algebra o i quesiti con la Susi nella Settimana enigmistica.

A che servirebbe, infatti, la paura, se non fosse rassicurante? Sai cosa devi temere, te ne tieni a distanza (ma neanche troppo…), ti conforti all’idea che nulla di male potrà succederti finché resterai – col tuo cappuccio rosso e il paniere vuoto – dentro il sentiero battuto che conduce alla casetta della nonna. Certo, chiunque sa benissimo che il sottobosco della vita è pieno di funghi, funghi appetitosi, che costano cari (in tutti i sensi), ma questa è un’altra storia (e qualcuno l’ha già scritta). L’importante è sapere cosa dover temere, e tenerlo sott’occhio, da una giusta distanza.

Per fortuna, sono ancora un fifone. E non ho mai smesso di commuovermi davanti a una buona storia, anche se ho imparato a farlo in silenzio (essere adulti: che bambinata!).

C’è una cosa, però, che ho disimparato. Non sono più in grado di vedere i fantasmi, di riconoscere i mostri. Quanto mi piacerebbe rincontrare mia mamma! E quanto sarebbe bello poter smascherare il male a una sola occhiata! Invece, crescere insegna il dubbio, la disillusione.

Sono diventato un inguaribile scettico. È per questo che invento storie: per aggiungere un po’ di spessore alla realtà. Tre dimensioni sono un po’ pochine…

Ma per poter credere davvero alle mie invenzioni, crederci io stesso, da scettico quale sono, ho bisogno che queste – anche le più balzane – siano comunque probabili, in altre parole restino sempre al di qua del fantastico, o meglio sul limite estremo che separa la logica spiegazione dei fatti dall’atto di fede.

È questo che ho cercato di fare con Per chi è la notte. Innanzi tutto parlare di paure: quella adulta, di perdere la vita, gli affetti, la sicurezza; e quella bambina: di mostri e creature fantastiche. E del bosco. Perdersi nel bosco. Il buio. Le cose indicibili che vi si annidano.

Ho pensato a lungo come intrecciare questi due piani, che potrei definire «di realtà» e «fantastico». Potevo scegliere un’ambientazione contemporanea, ma mi sono chiesto: oggi, nella nostra società del benessere e del benservito, di cosa abbiamo paura?

Di perdere il lavoro, di non riuscire a pagare il mutuo, di ammalarci e soffrire, di ricevere una telefonata in cui ci informano che qualche nostro caro ha avuto un incidente…

Sono paure terribili, certo, ma derivate: parlano di altre paure, che vi sono nascoste dentro, e vengono rivestite di ragionevolezza, pragmatismo.

Alla radice di tutte le paure sta quella sola: la paura della morte. Propria o dei propri cari.

Allora mi sono chiesto: dov’è che questa paura primigenia si manifesta senza travestimenti? In quale circostanza la morte è quotidianamente possibile, per tutti, tanto da essere persino legittimata?

Risposta: in guerra.

Avevo bisogno della guerra. Ma non mi bastava. Mi serviva anche un terrore più grande.

«Cosa può esserci di peggio della morte?», mi chiederete.

Ciò che viene dopo la morte. La dannazione, per chi ci crede.

Già, ma chi ci crede più oggi?

Ecco allora che ho deciso di ambientare la mia storia nel passato (durante la Seconda guerra mondiale) e in un altrove insieme mitico e geografico in cui si credesse davvero e profondamente al peccato eterno: i monti della Garfagnana.

Dopo questa scelta, ogni altra mi era semplice, consequenziale. La Garfagnana mi offriva un’inesauribile patrimonio di storie, leggende, mitologie. Fra tutte, quella degli streghi: misteriosi abitanti del bosco che vagano nelle tenebre al lume del loro indice acceso, che arde e non si consuma. Se commetti l’errore di farti sorprendere per strada dopo il tramonto, ti chiederanno: «Per chi è la notte?».

Guai a non conoscere la risposta! Diventerai uno di loro…

PS: La risposta alla domanda del titolo si trova nel romanzo. Leggetelo per salvarvi la vita.

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