Due anni fa io e Franco Loi risalivamo in aereo la dorsale appenninica. Eravamo seduti uno di fianco all’altro e parlavamo di Vittorini. «Lo sai, lo sai» mi dice Loi come fa di solito, con una voce squillante, «mi stava pubblicando un libro!» Non dissi nulla, glielo feci capire: un libro? Avevo conosciuto Loi diversi anni prima, in uno degli incontri organizzati nella libreria dell’Università Cattolica, e mi aveva subito colpito che fosse nato nel 1930, stesso anno di mio padre, e per quell’incalcolabile legame che si crea tra gli individui avevo cominciato a trattarlo con quel misto di rispetto e complicità, proprio come se fosse stato un padre. «Ripetimi un po’ bene questa storia» feci io in aereo. E Loi mi parlò di Marcello Venturi e dello scherzo che gli aveva fatto mentre lui si trovava in Inghilterra e dell’incontro telefonico con Vittorini, che ora lui racconta nell’avantesto. Non era però questo a sedurmi, piuttosto quel che ci stava dietro. «Il libro» interruppi io, «perché non l’hai pubblicato nei “Gettoni”?» «Perché non l’ho mai restituito a Vittorini». Avevo sgranato gli occhi per la seconda volta e non certamente perché stavamo attraversando un’enorme nuvola e l’aereo era completamente circondato da un’ovatta bianca. Vittorini aveva letto il testo, gli aveva mosso qualche osservazione stilistica, come di solito faceva, e glielo aveva restituito. Anziché ascoltare il suo editing, Loi aveva riscritto da cima a fondo il testo, ma in una forma che a Vittorini, quando se lo ritrovò una seconda volta tra le mani, non piacque. Al che, visti i risultati, Loi si era rifiutato di tornare alla vecchia versione. «E ora di questo libro che ne è?» gli chiesi di nuovo io, sempre in aereo. «In fondo a un cassetto» ribatté Loi. «Vuoi pubblicarlo?»
Andai a prendere il dattiloscritto che era autunno, un pomeriggio caldo e accompagnato da qualche goccia di pioggia. Loi me lo diede, ma aveva la faccia di chi aveva perso fiducia in quel suo antico lavoro. I fogli erano ingialliti e secchi, rovinati dal trascorrere degli anni, ma portavano ancora le correzioni a penna. Io rimasi a fissare quei segni, mentre il gatto passeggiava indisturbato sulla tavola e si avvicinava ad annusare; pensavo che Vittorini ci aveva messo le mani e una specie di febbre mi attraversava gli occhi. «Sei sicuro di volermelo dare?» domandai ancora. Loi sorrise, alzò le spalle e mi congedò in uno stato di eccitazione. Non credeva che un libro potesse suscitare interesse nei lettori di sessant’anni dopo. Letto e riletto, però, il racconto acquistava forza: interessava eccome, un libro sulla Milano periferica dell’immediato dopoguerra non poteva conservare quel senso di fotografia in bianco e nero, come certi filmini che i nostri genitori giravano nei giorni del nostro battesimo o della prima comunione. Sequenze di un’epoca che non c’è più, ma che abbiamo la pretesa di pensare a nostra immagine.
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