Quando fu pubblicato I fuochi del Basento, nel 1987, avevo da poco terminato gli studi universitari e quel libro dalla copertina blu, con in primo piano una coppia di briganti disegnati durante il riposo notturno, mi parve l’epifania di una nuova stagione culturale.
Non conoscevo Raffaele Nigro, lo avevo incontrato solo una volta, quasi di sfuggita, ma non mi erano sfuggiti i suoi saggi sulla cultura del Mezzogiorno, che raccontavano di una Basilicata per me inedita, fatta di corti principesche (che avrei ritrovato più tardi nella Baronessa dell’Olivento), di archivi parrocchiali e di scrittori sepolti dalla polvere sollevata dagli zoccoli degli eserciti che scorrazzavano al tempo delle guerre tra gli Aragonesi e i baroni ribelli.
Il suo romanzo sui briganti, dove potevi sentire il rumore degli archibugi già solo leggendo il frontespizio, veniva ad arricchire (e a rettificare) l’immagine che Leonardo Sinisgalli aveva dichiarato in Un disegno di Scipione e altri racconti (1975): «Questo è un popolo che la saggezza ha portato alle soglie dell’insensatezza». I lucani continuavano a essere considerati una stirpe di folli (forse perché fin troppo sapienti), con Nigro acquistavano la fisionomia degli eroi omerici, destinati certo alla sconfitta, ma persuasi a imbracciare i fucili per entrare, a suon di schioppettate e di fanfare, dentro il gran circo del mondo. La Lucania rimaneva una terra umile, l’humilemque Italiam di Virgilio e di Carlo Levi, ma il racconto della famiglia Nigro (di Francesco e Concetta Libera, di Carlantonio e Teresa Addolorata, di Raffaele Arcangelo e Sofronia Crocefissa) ne dava un ritratto eversivo, dipingendola come un luogo più disposto a mettere in gioco il suo destino in nome di un sogno impossibile: sconfiggere l’isolamento e riconoscersi dentro la Storia (quella con la S maiuscola). Uscendo dal ghetto, cambiavano anche le strutture del romanzo e dalla linea Levi-Alianello il gusto del narrare si spostava sul binario dell’utopismo magico che trovava intreccio con il genere dello storico-antropologico.
Nel 1987, in altre parole, cominciava un percorso completamente inedito per la letteratura del Meridione e io lo celebravo in silenzio, da un punto d’osservazione distante quanto un mondo: quella stessa Milano dove Raffaele Crovi guidava l’editrice Camunia con l’intelligenza di un illuminista e offriva all’immaginazione di Nigro (e poi anche alla mia) la chance di esprimersi. Nelle astratte geometrie della metropoli lombarda la scrittura di Nigro giungeva persuasiva come una mattina di primavera fino a tingersi con i colori dell’epica. Da quel momento Nigro assumeva per me il ruolo di un Ulisse in viaggio verso il miraggio di Itaca e tutti noi, quelli che venivamo dietro di lui, potevamo diventare i suoi compagni di avventura. Senza il successo dei Fuochi del Basento – ne sono certo – la Basilicata non avrebbe raccolto il consenso della grande editoria del Nord, né sarebbe cominciata la straordinaria stagione che in vent’anni avrebbe trasformato una terra di poeti in una terra di attrezzati narratori. Il miracolo era compiuto.
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