#NottiAGerusalemme

Della Gerusalemme liberata ho sempre avuto un ricordo sbiadito. Era stata una lettura degli anni universitari, qualcosa di evanescente, avvolto nella nebbia. Una storia troppo lontana da me, remota in un tempo che non mi significava quasi nulla: una città, una guerra di religione, un esercito che si stanca di combattere e un comandante che continua a richiamare i cavalieri all’ordine. Sarà perché non ho partecipato alla leva militare e non ho giurato su nessuna bandiera, mi pareva una grande farsa il senso esasperato del dovere: disciplina, gerarchie, comandi. Se i soldati non vogliono combattere, è inutile insistere.

Da allora l’avevo abbandonata. Se dovevo pensare a un poema dell’età moderna, era più facile che mi venisse in mente l’Orlando furioso. Più leggero, più divertente, magari anche più vicino alla mia maniera di considerare le azioni del mondo: abbandoniamoci al caos, lasciamo perdere la guerra e corriamo anche noi dietro Angelica, che si innamora di un pastore e non di un paladino.

Fra Ariosto e Tasso non avrei avuto dubbi: meglio la fantasia che le preghiere, meglio volare sull’ippogrifo anziché tormentarsi con le imprese inutili. Poi la scorsa estate capita di trovarmi in un momento di solitudine: ho appena concluso un libro che considero quello della mia vita, penso di trascorrere un mese in allegria e invece sento che qualcosa mi manca. Non so bene cosa sia, ma occupa in me uno spazio notevole. Forse è proprio il libro che ho scritto a mancarmi, forse io non sono più lo stesso, forse ho avvistato una stella che indica un altrove che non conoscevo e avrei dovuto sapere.

Per caso, per noia, per tristezza, prendo in mano La Gerusalemme liberata: «Canto l’armi pietose e ‘l capitano…» Le armi pie. Le armi della pietà. La pietà che non ho di me. La pena che provo se penso alla malinconia di quella Gerusalemme al di là di un mare che non ho mai navigato e che sta alla mia destra, se lo guardo dall’Appennino dove sono nato. Guardo la città che i cavalieri vogliono conquistare come se fosse una loro amante: è davvero candida come la pelle di una donna che ti sorride, questa Gerusalemme, lontana e misteriosa, brilla nella notte anche se non ci sono luci e gli accampamenti sono deserti perché tutti sanno che è una guerra insensata. Sono stato anch’io a Gerusalemme per un’estate. Ho respirato la polvere sollevata dai cavalli, ho ascoltato l’infinito parlare dei comandanti che non capivano il perché dei numerosi disertori. Discutevano a voce bassa, chiamavano in aiuto santi e angeli, invocavano nome per nome quelli che erano fuggiti perché le porte della città si aprivano e si chiudevano, promettevano curiosità, veli di donne, canti di beduini, ragli di asini e cammelli.

In quelle notti di agosto, mentre seguivo il racconto di una guerra senza fine e senza movimento, ho visto anch’io aprirsi le porte della città come lanterne nel buio. Ho subito la stessa meraviglia che era negli occhi dei soldati e sono andato con loro, a caccia di ragioni che non fossero soltanto quelle di uccidere. A un certo punto mi sono fermato. Avevo smontato e rimontato il poema di Tasso almeno una decina di volte. Sapevo i trucchi e le arti della sua voce malinconica, parlavo anch’io con la cantilena suadente dei suoi personaggi. Sono arrivato in fondo, ma più cercavo di capire, più il libro mi confondeva la vista: cosa mi aveva spinto a leggere? E cosa aveva spinto quei soldati ad andare a combattere fin laggiù? Arrivato all’ultima riga, mi trovavo a camminare fuori dalle mura di Gerusalemme. I soldati se n’erano andati, le navi partite, le vele sciolte. E continuavo a sentirmi solo. Mi ero rassegnato: avrei peregrinato come un’anima in pena lungo la spiaggia.

A un certo punto mi appare una creatura. Si sarà smarrita, penso. E mi fermo a capire che fa. Si ferma anche lei, a dieci passi da me. Ci guardiamo in silenzio. È una di quelle donne incantevoli che popolano il poema di Tasso. Era una vita che aspettavo di incontrarla. Il destino del racconto me la portava in dono.

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