#incercadeipadri

Il mio trasferimento a Milano significò, tra le tante altre cose, perdere i padri. Il che non voleva dire dal punto di vista fisico. Mio padre continuava a esistere: era una voce che si manifestava la domenica mattina, per telefono, con le tipiche domande e le tipiche raccomandazioni che si rivolgono a uno studente fuori sede. Piuttosto mancava la sua presenza, come se il viaggio in treno verso il grande Nord mi avesse messo dinanzi alla possibilità che a un certo punto della vita i padri si possono anche perdere di vista (perché lontani, perché assenti) o smarrire essi stessi lungo la strada che li riporta a casa – e questa è un’ipotesi che deriva dall’Odissea – e tocca ai figli cercarli. Io avevo perso mio padre come figura di riferimento, come interlocutore. Il filo del telefono non era sufficiente per continuare a darmi la sensazione che lui fosse presente nella mia vita.

A Milano avvertivo il senso di spaesamento e dunque la perdita del luogo coincideva con la perdita dei padri. Per uno che voleva diventare scrittore – com’ero io a quell’epoca – il vuoto era ancora più pericoloso perché non si cresce virgulti quando non si hanno radici e le radici non appartengono soltanto al sangue, ma sono anche una questione di libri e di letteratura.

Nella mia affannosa ricerca dei padri, credo che un ruolo notevole l’abbiano ricoperto Raffaele Crovi e il suo libro più compiuto: Le parole del padre, che io comprai nel 1991 nella libreria Rizzoli, in galleria, firmata dalla mano del suo autore. Lo aveva pubblicato l’editore Rusconi e si presentava con una sovraccoperta color ruggine, impreziosita da un disegno di Egon Schiële: un ragazzo scheletrico e dinoccolato. Potevo essere io quel ragazzo, non certamente Crovi che aveva una corporatura grossa e cilindrica. Ma il senso di quella figura stava nella matrice di attesa che esprimeva: Schiële raccontava il desiderio di avere un padre (un po’ ricordava Kafka e i suoi conflitti), il suo senso di appartenenza era tutt’altro rispetto a ciò che Freud aveva dichiarato all’inizio dello scorso secolo, cioè il conflitto, la sfida, l’omicidio.

Se i figli avevano il compito di uccidere i padri, questi, a loro volta, avevano il dovere di difendersi. Ma era pur sempre una guerra che nel Novecento aveva portato ad abbattere i miti e gli dei senza avere nient’altro in cui credere. Togliamo di mezzo i padri, d’accordo, e cosa mettiamo al loro posto? Come avremmo riempito il vuoto che ci lasciavano in eredità? Solo per pura illusione avremmo considerato il mondo tutto nostro perché il mondo, in verità, esiste solo quando puoi dividerlo con qualcun altro e spesso, questo altro, è chi ti ha fatto nascere.

A Milano, senza volerlo, io scoprivo la nullità del pensiero di Freud e di Nietzsche scontrandomi con il rimpianto di non avere il tempo di stare più a lungo insieme a mio padre, parlargli dei miei sogni e delle mie paure, confessargli le fantasie che cercavo nelle parole scritte e che per telefono, a distanza, non ero in grado di dirgli. Le parole del padre di Raffaele Crovi giungeva a confermare quanto andavo rimpiangendo la mia partenza dall’Appennino dov’ero nato. Quel libro era il racconto di un padre venditore ambulante, che perdeva la parola per colpa di una malattia, e di un figlio che gliela restituiva. Ma era anche il racconto di un ragazzo che trovava in uno scrittore la voce di un altro padre, venditore di parole e non più di stoffe. L’altro padre si chiamava Elio Vittorini e Crovi visse la giovinezza all’ombra delle sue ali, si nutrì della sua scrittura come un cucciolo da latte, tenero e indifeso, a dimostrazione che aveva avuto ragione Omero nell’aver pensato a Telemaco uscito di casa a caccia di Ulisse. Dov’è mio padre? Avete visto passare mio padre? Non mi sentivo figlio di un secolo che aveva ucciso i genitori, ma un orfano o un pellegrino solitario che non avrebbe saputo diventare adulto se non avesse inseguito fino alla fine chi lo aveva messo al mondo. E lo avesse scovato, riportato a casa.

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