#CervantesSulleMonete

In un cassetto della mia scrivania conservo le monete coniate in Spagna da dieci, venti e cinquanta centesimi che mi arrivano per caso, direttamente dalle mani del giornalaio o sputate dalle macchinette che distribuiscono acqua o altre bibite nelle stazioni ferroviarie.

È una specie di sortilegio a cui obbedisco da quando l’euro ha soppiantato la lira: sulla parte posteriore di quelle monete la faccia di Cervantes mi guarda con uno sguardo un po’ accigliato, con la sua barbetta, il pizzo, i baffi e il collo chiuso in uno svolazzo di stoffe vaporose e barocche. È una specie di divinità letteraria a cui rendo omaggio in un modo certo anomalo ma tutto sommato finalizzato a perpetuarne la memoria: ricordare chi era – penso – significa anche conservare tutto ciò che mi riporta a lui, che sia il suo immortale libro, Don Chisciotte, o più brutalmente le monete di questi tempi a me contemporanei.

Sarà vero che con quel romanzo muore per sempre la figura del cavaliere, sarà vero anche che dopo Cervantes comincia l’epoca moderna – tutte cose che sono state ampiamente ripetute – ma per me nella storia di quel cavaliere errante si consuma il passaggio della ragione che rimane ragione alla ragione che sconfina nel territorio della follia. E per questo forse la sua faccia impressa sulle monete ricorda un periodo aureo, un’atmosfera d’incanto che ritrovo quando entro nelle stanze del suo favoloso narrare, quando succede di imbattersi nella scena del suo protagonista che è diventato matto per aver aperto e letto troppi volumi della sua biblioteca e su quelle pagine, dopo aver meditato senza pace chissà quante notti come un soldato che si accinge a consacrarsi al suo re, arriva ad abbracciare il sogno di diventare uomo di grandi imprese.

Ricordo una pubblicità al tempo della mia infanzia, in cui si vedeva un uomo lungo lungo e un altro tondo tondo. Se ne andavano in giro senza sapere bene dove fermarsi, in cerca di fortuna e di gloria, ma con la convinzione di non farcela. Uno respirava l’aria delle nuvole e questo probabilmente gli nuoceva, l’altro aveva il naso troppo vicino alla terra. Chi era il più matto dei due? A scuola ci hanno insegnato che è Chisciotte, l’hombre vertical, il cavaliere lungo. E ciò ha contribuito a far nascere una generazione di disincantati – la mia, quella nata negli anni del benessere – che non investe più nei sogni per dedicarsi troppo agli affari della ragione. Sancho invece era il giudizioso, il concreto, il tecnocrate, la persona squadrata che osserva con compatimento il compagno di viaggio.

I fatti del libro gli avrebbero dato torto: il vero matto è lui che conosce la verità e continua a obbedire pur sapendo che perderà tempo se si sforzerà di capire. Nella follia di Chisciotte si celebre assai più che la fine dell’epoca cavalleresca e grazie a essa si registra un terremoto in cui non si consuma solo il vecchio, logoro mondo degli statuti medievali. Piuttosto arriviamo a celebrare il trionfo dell’inverosimile, la vittoria del sogno sulla ragione, l’affermazione di un primato: quello di chi non accetta le coordinate della Storia e azzarda un passo oltre, un saltello di pochi metri che gli permette di guadare il fiume del già detto, del già sentito, del già ribadito.

A differenza di Sancho, che non cesserà di domandarsi dove vorrà spingersi l’uomo verticale che cavalca dinanzi, Chisciotte ha già visto tutto: l’inizio e la fine dell’universo, la genesi e l’apocalisse di ogni bibbia, i peccati e i miracoli che accompagnano ogni azione umana e ha deciso che è tempo di spiccare il volo, anche a costo di rompersi l’osso del collo contro le pale dei mulini. Avrà sbagliato bersaglio, ma nessuno potrà rimproverargli che non ci ha provato a cambiare la faccia della terra.

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