Per un lettore appassionato è importante trovare ogni tanto, nella marea di libri letti, un libro che segna un prima e un dopo: prima si era in un certo modo, dopo la lettura si è un po’ più completi perché quel libro ha parlato dritto al nostro cuore e alle nostre emozioni.
Da lettrice appassionata, tra i libri che divoro, ogni anno ne trovo due o tre, a dir tanto, di questo tipo: non perché gli altri non mi siano piaciuti o non mi abbiano emozionato, ma perché non si adattavano bene alla mia pelle come invece fanno questi libri speciali. Il libro Le fragili attese di Mattia Signorini (edito da Marsilio), per me, ha fatto parte di questa categoria. Dopo averlo finito mi ha lasciato addosso malinconia, struggimento e la gioia segreta che prova chi incontra un piccolo tesoro; con questi stati d’animo e un senso di quasi riverenza nei suoi confronti mi sono accinta ad intervistarlo in stile PerfectBook, con un occhio privilegiato alle emozioni che lui riesce a descrivere molto bene.
La Pensione Palomar è il ricettacolo in cui sono riunite tante persone legate da solitudini, vite in sospeso, “fragili attese”, e diventa quasi un luogo mentale oltre che un luogo fisico. Ci racconti la genesi di quest’idea? Ti sei ispirato ad un luogo reale?
Sono sempre stato affascinato dai luoghi di confine. Che dividano due posti tra tra loro diversi, o due epoche, o due realtà. Forse il confine è nel mio DNA. La città dove sono cresciuto e dove ho deciso di tornare a vivere, Rovigo, è tra l’Adige e il Po, i suoi confini sono fatti di acqua. La Pensione Palomar è come certi posti in provincia in cui andavo da bambino e che adesso non ci sono più. È un posto di confine che vive nei ricordi.
I tuoi personaggi hanno età e vicissitudini diverse; eppure sono tutti accomunati dal fatto di essere in un momento di stallo, in cui hanno messo la loro vita fino a quel momento tra parentesi e non hanno deciso quale direzione darle. Qual è secondo te la motivazione primaria del blocco che unisce i tuoi personaggi? Può essere identificata nella paura del cambiamento?
Il cambiamento ci fa spesso paura e stranamente continua a farcela anche quando la nostra vita non va per il verso giusto e dovremmo darle una svolta. I protagonisti di Le fragili attese all’inizio del romanzo sono proprio così: immobili. Ma non ci mettono molto a comprendere la necessità del movimento.
“Esistere, e non vivere”, “scambiarsi solitudini”… Il personaggio di Ingrid annega il proprio dolore in rapporti sessuali occasionali con sconosciuti che le fanno ribrezzo, cercando così di non sentire nulla. Lo scacciare ogni emozione può essere visto come il suo tentativo di non soffrire più? Cosa si nasconde dietro la sua scelta di vita?
Quando soffriamo molto tendiamo a farci del male o ad anestetizzarci da quello che ci ha fatto stare molto male. Nel caso di Ingrid è l’amore. Lei non ci crede più, eppure il ricordo del suo grande amore non la abbandona mai. Si convince di non essere fatta per l’amore, cerca di punirsi, ma nel profondo di sé intuisce anche che il dolore non va via semplicemente tentando di soffocarlo.
Come ti rapporti tu alle attese della vita? Qual è il personaggio che più ti rappresenta?
Mi rappresentano molto due donne: Penelope, la bambina muta, ed Emma, la governante solitaria della Pensione Palomar. Nella mia vita sono abituato a rapportarmi con molte persone, a parlare molto, eppure le cose più importanti di quello che io sono vivono in una parte silenziosa di me, che conoscono davvero in pochi. Ho provato a toccare quella parte mettendomi nei panni di due donne fragili, delicate, che intuiscono il mondo proprio grazie a quella fragilità.
Ciò che comunichi, mettendo in scena l’incontro tra due solitudini che smuove qualcosa, è molto bello, così come la speranza che sembra permeare vicende molto tristi. Qual è il messaggio preponderante del tuo libro?
Quando scrivo non voglio mandare messaggi, non penso di avere grandi verità da dire. Piuttosto, come tutti, ho sensazioni sul mondo che mi circonda, sulle dinamiche con cui interagiscono tra loro le persone. Soprattutto sento che le persone spesso non riescono a capirsi, a entrare in empatia tra loro. Scrivere storie è l’unico modo che ho di dare voce a quelle sensazioni.
La vicenda di Emma ed Italo ci insegna che spesso ciò che è davanti ai nostri occhi non ci è chiaro, appannato dalla routine che ha smesso di darle l’importanza giusta. Le lettere, attraverso le parole, possono essere viste come un mezzo per ridare luce a ciò che nella prosaicità della vita a volte perdiamo?
Quello che ci manca oggi è la capacità di riappropriarci della lentezza. Siamo capaci di processare centinaia di stimoli al giorno, virtuali e reali, e abbiamo perso il senso dello scavare in profondità. Le nostre vite corrono su linee ad alta velocità con i finestrini oscurati. La ricerca della profondità – necessariamente – porta via tempo, ci educa a selezionare le situazioni e le persone e sempre meno persone hanno voglia di farlo. Scrivere lettere è una delle cose che abbiamo perso. Quando apro la mia bella cassetta rossa, grande come quelle americane, ci trovo bollette e volantini promozionali del Mediaworld. Vorrei almeno una volta trovare qualche lettera. Nell’attesa, ne ho messa qualcuna dentro il romanzo.
La Pensione Palomar è di nuovo al completo per un’ultima volta prima della chiusura finale. La vita di Italo, il gestore della pensione, cambierà alla fine: attorniato da persone “bloccate”, un mistero si scioglie e qualcosa cambia. La chiusura della pensione, luogo di attese, era necessario perché la sua vita ripartisse?
Forse iniziamo a cambiare quando intravediamo, non troppo lontano, qualche tipo di capolinea, e sappiamo con certezza che il nostro tempo, insieme alla nostra capacità di essere curiosi, ha un limite. Ripartire, rinnovarsi, è l’unico modo di superare quel limite.
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