Il compianto Gino Santercole, nella versione italiana di “Eve of destruction”, lo chiamava “Questo vecchio pazzo mondo”: un gran pezzo, anche se il nipote di Celentano ne ha fatto una ballatona romantica mentre l’originale era una canzone di protesta sulla guerra, i diritti umani, l’inquinamento. Andate ad ascoltarvele entrambe, meritano ognuna a modo loro, soprattutto in questo momento in cui è complicato guardare al pianeta con lucidità.
Pure all’umanità, va detto: abbiamo impiegato più di 300.000 anni di evoluzione per dubitare fino all’esasperazione, alimentare pettegolezzi sui social, scannarci per centinaia di migliaia di futili motivi e en passant arare indiscriminatamente l’ambiente senza quel po’ di lungimiranza che il nostro aver studiato dovrebbe consentirci.
Daniele, che catastrofista!
D’accordo, vi offro io la guancia per il buffetto d’ordinanza: mamma mia, Daniele, che catastrofista! Sì, più o meno. In realtà, a guardare con attenzione “questo vecchio pazzo mondo” e gli esseri viventi che lo popolano e lo hanno popolato nei millenni, ci si rende conto che per quanto tempo possa trascorrere e per quanta conoscenza si possa accumulare, la parte più profonda di ciò che siamo non cambia, o almeno non più di tanto. Le nostre capacità, le nostre potenzialità che albergano soprattutto nel cervello – sviluppato così tanto per merito dei piedi e delle mani, curioso vero? – sono contemporaneamente la nostra croce e delizia. In che senso?
In pieno trip da studio dell’uomo e della natura, saltello da un po’ tra libri e podcast per capirci qualcosa: i comportamenti umani, animali e persino vegetali hanno una loro storia, una logica, spiegazioni (non giustificazioni, attenzione!) ed evoluzioni. Accettiamo con un pizzico di umorismo nero che la mantide religiosa sbrani la testa del maschio con cui si accoppia (ricordiamo con affetto un fulminante Guzzanti sul tema), che alcuni serpenti partoriscano i propri piccoli da un ramo per evitare di venire azzannati dai neonati, o che i maschi alfa nei branchi tengano comportamenti che con un eufemismo definiamo dispotici. Sono animali, in fondo, no? Ecco. Anche noi lo siamo, nella misura e nei parametri su cui ognuno di noi costruisce le sue credenze e i suoi valori. Per fortuna sappiamo far fronte alle disparità lottando, lavorando, considerando. Oddio, ci proviamo: ragionare sul nostro essere all’interno della natura non significa trincerarsi dietro alla natura. “È sempre stato così” o “non è naturale” sono espressioni che non significano nulla, a conoscere il mondo e il suo funzionamento: per questo sto cercando più informazioni possibili sull’argomento.
Ad esempio, proprio il nostro gettarci nei pettegolezzi e nelle vite degli altri è uno dei fattori che hanno consentito a noi uomini di emergere sulle altre forme di vita: riusciamo a costruire sovrastrutture, in cui crediamo o a cui facciamo riferimento, così forti da farci avvicinare e sostanzialmente fidare di completi sconosciuti. Abbiamo le leggi, la religione, lo stato, il denaro, decine di contesti in cui ci riconosciamo e che ci avvicinano – o comunque ci consentono di confrontarci – con chiunque nel mondo. Gli scimpanzè, così simili a noi, non ci riuscirebbero mai: se non vedono, non sanno. Noi sappiamo spiegarcelo, ci crediamo, ci adattiamo, quindi collaboriamo.
Daniele, dai, su: dove diamine vuoi arrivare?
Mi piacerebbe che ve lo dicesse Sapiens, la nascita dell’umanità, di Yuval Noah Harari: non fornisce risposte esaustive, come è giusto che sia, ma allarga il parco di informazioni e di domande su chi siamo, dove andiamo, un fiorin… no, quella è un’altra storia.
Da poco ne è uscita una strepitosa versione a graphic novel che avvicina a temi così imponenti anche i ragazzi – è un’ottima lettura già dalle medie, non ci sono grandi cose per cui scandalizzarsi, via – e ragionando, giocando e analizzando, ci ricorda che forse dovremmo un po’ abbassare la cresta. Fino a poche migliaia di anni fa, in fondo, non eravamo gli unici uomini sul pianeta: sei erano le specie compresenti, ma le altre cinque puf, sparite. Le abbiamo sterminate allegramente tutte, cosa che in effetti ci riesce piuttosto bene, o abbiamo semplicemente primeggiato fondendoci e risultando i migliori? Non c’eravamo, non si sa, si può tirare a indovinare soppesando le informazioni che abbiamo a disposizione. Ma se leggete il libro, qualche idea potrete farvela. E magari non dico addolcire, ma almeno riconsiderare quel pessimismo fastidioso che ci sta avvolgendo come una nebbia grigia e ovattata.
Siamo così, tendiamo a migliorarci singolarmente, ci prendiamo cura del nostro gruppo (sapete che il nostro cervello può gestire al massimo 150 amici? Altro che Facebook!), puntiamo alla migliore sopravvivenza possibile, ma poi beh, come si usa dire: siamo umani.
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