#nonnoGiovanniavevaunsosia

Avevo un bisnonno che somigliava a Giovanni Verga: fisico asciutto, capelli bianchi e lievemente mossi, baffi folti che piegavano un poco all’ingiù, la faccia di chi non vuole concedere nulla ai ricordi.

Era stato in America, non so dove di preciso, la leggenda dice che avesse lavorato anche alla realizzazione di una ferrovia e dopo dieci anni in quel continente era tornato portandosi un portafogli pieno di dollari e qualche parola inglese, che ogni tanto sfoderava per dare lustro alla sua presenza silenziosa, in famiglia o con gli estranei. Anche il tempo dell’emigrazione, oltre alla somiglianza, contribuivano a farne la copia di Verga perché il personaggio più importante uscito dalla penna dello scrittore siciliano, Gesualdo Motta, era come lui, con un passato povero alle spalle e una vita impegnata a scalare la ricchezza.

Copertina di Mastro Don Gesualdo, di Giovanni Verga

D’altra parte, le immagini parlavano chiaro. Quando andavo a trovarlo al cimitero, in compagnia di mia madre, il suo ovale mi restituiva la stessa fotografia che compariva sulla copertina del Mastro Don Gesualdo, stampato il 31 dicembre del 1962 dalle Edizioni Scolastiche Mondadori, a cura di Luigi Russo. Avevamo quel libro nella biblioteca di casa e ogni volta che mi capitava di prenderlo in mano notavo che il signore nella foto sulla copertina – anche lui serio e ottocentesco, in giacca e camicia bianca, con due baffi spioventi come pluviali – mi scrutava come avrebbe fatto un parente che aveva a cuore la sorte di un nipote, un parente assai vecchio ma ancora energico, come si comprende dallo sguardo. «Ecco qui nonno Giovanni» dicevo quando tenevo in mano il libro.

Si chiamava Giovanni, come Verga, e questo era la terza delle rassomiglianze. Era nonno per mia madre, non per me – io avrei dovuto chiamarlo bisnonno – ma per un processo di assimilazione lui era diventato nonno e ormai, a causa della coincidenza fotografica e del nome, ero autorizzato a chiamare nonno anche il grande scrittore siciliano, il patriarca della letteratura meridionale dopo che il Meridione aveva cessato di essere una regione a sé ed era entrato a far parte di un tutto. Mastro Don Gesualdo non riuscii a leggerlo durante la mia infanzia: ogni volta tentavo, mi mettevo di buona lena e poi lo abbandonavo. Non sapevo il motivo, ma c’era qualcosa che mi impediva di farlo, nonostante il profilo familiare del suo autore.

Me lo portai in treno in uno dei tanti viaggi verso Milano. Sarebbe stato come avere qualcuno dei parenti con me, eppure nemmeno in quel caso riuscii ad andare oltre la prime pagine. Quando mi capitò di leggerlo ed ero ormai prossimo a laurearmi, capii finalmente il motivo che mi respingeva: il personaggio di cui si raccontava, il grande Gesualdo che si era fatto ricco partendo da muratore, arrivato alla vecchiaia, quando doveva godere della fortuna che aveva avuto, non se la passava proprio così bene. Era la brutta copia di nonno Giovanni, la faccia del suo fallimento: malato, solo, povero…

Il romanzo di Verga era il racconto di un fallito e io non potevo – è questo il vero motivo della mia resistenza a leggerlo – non potevo concepire che un uomo della sua forza e della sua volontà potesse sbagliare i passi della vita e ritrovarsi a un punto inferiore rispetto al livello da dove aveva cominciato. Almeno non negli anni in cui io mi avviavo a fare le mie scelte per la vita. Sarebbe stato come andare incontro a un destino triste, come arrivare alla vecchiaia senza aver attraversato i territori dell’infanzia e della giovinezza. In questo si differenziavano i due Giovanni: il mio bisnonno era riuscito a fare quel che Verga aveva impedito al suo personaggio, cioè godersi quel che aveva conquistato, sorridere nella vecchiaia.


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