Dei dieci celeberrimi diritti del lettore stilati da Pennac, il terzo è quello più difficile da digerire: il diritto di non finire un libro.
Non so se esista qualcuno al mondo che lo vive diversamente, ma per me ogni volta che accade è una sconfitta. Immagino abbia a che fare con l’odiosa questione che la stragrande maggioranza dei libri che ho affrontato sia stata acquistata, e insomma, ci ho investito dei soldi, mannaggia la miseria, tutte quelle pagine che resteranno inutilizzate sono uno spreco che non posso proprio permettermi. A guardare meglio, quantomeno con un po’ più di serietà e sentimento, è una faccenda molto più emotiva: il libro ci parla, noi lo ascoltiamo, a modo nostro gli rispondiamo e inconsciamente ci aspettiamo che a sua volta ci venga incontro. Quando non accade, quando ci delude, quando va per la sua strada, quando è troppo diverso da come ce lo aspettiamo, si spegne la fiammella che ci tiene uniti. La voglia di sapere cos’altro avrà da dirci se ne va a farsi benedire.
Ne ho lasciati diversi lungo la strada
In vita mia, confesso, ne ho lasciati diversi lungo la strada. Ironia della sorte, uno è proprio La prosivendola di Pennac (o era la Fata Carabina? Non me lo ricordo, il che la dice lunga): mi ero innamorato al Paradiso degli Orchi, travolto da quella scrittura brillantissima, dalle trovate geniali, dai personaggi così eccessivi; a un terzo abbondante del romanzo successivo avevo sensazioni di deja vu ogni due pagine, tutto quel trionfo di genialità mi è venuta a noia, e niente. Scusa Daniel, davvero, magari semplicemente non avrei dovuto infilarli uno di seguito all’altro.
Mi è successo di nuovo in questi giorni, Underland di Robert Macfarlane il destinatario di un “non sei tu, sono io” spietato e terribilmente deluso. Non starò qui a sparare a zero contro un autore affermatissimo e un volume che, a quanto dice Goodreads, sta riscuotendo un buon successo: diciamo che poco oltre la metà, dopo un capitolo che parlava con faciloneria di fatti storici e luoghi che ben conosco, sopraffatto dalla incomunicabilità tra i suoi racconti e le mie attese, con davanti altre circa duecento pagine sullo stesso tenore, ho bofonchiato scorbutico ripensando ai 22 euro buttati, al tempo rubato, alle sessanta surreali pagine di note in coda e hop!, via sullo scaffale.
Ho già detto che non sono due casi isolati, nella mia storia di lettore, anzi. Con un po’ di vergogna confesso di avere diversi libri che non sono mai stati sfogliati oltre una certa soglia. La questione è che parliamo di nomi altisonanti, best seller conclamati, oddio, anche cose meno celebri, ma comunque non mi è mai accaduto per scarsa qualità o sciatteria, mai. Un libro brutto o malfatto nemmeno si comincia, almeno così è per me.
Una faccenda di comunicazione
Si tratta proprio una faccenda di comunicazione, mi sa. L’ultimo episodio con Macfarlane me l’ha sbattuto in faccia: sembra un libro scritto per sé, e non per me che lo sfoglio, questo mi arrivava continuamente dalle pagine. Non siamo fatti per concluderci a vicenda. Io e lui non siamo affiatati.
Questo è quello che mi accade con i libri che non concludo: quelle pagine e me, ecco, a guardarci bene non siamo una coppia. Sbuffo ogni dieci righe. “Mi ascolti?”. No, com’è che stavi dicendo? “Te lo ripeto, e pure per iscritto”. No, guarda, sono stanco, non mi interessa.
Incomunicabilità, di questo si tratta.
Ecco, ditemi che non sono pazzo a ragionare di libri come se fosse un dialogo, un’amicizia, un rapporto. Che non arrivare alla parola Fine mescola liberazione e stress, leggerezza e senso di colpa. Capita anche a voi, vero?
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