#lebestienesannopiùdegliuomini

C’è un libro che quasi nessuno cita, quando si fanno gli elenchi delle letture essenziali (quelle che non devono mancare quando ci si imbarca per la famosa isola deserta e scampare alla distruzione della terra…), ed è Il Pentamerone di Giambattista Basile.

Un libro misterioso nel titolo: uno capisce subito che somiglia al Decamerone, ma qualcosa cambia nelle prime lettere, deca evoca il numero dieci, ma penta? Se non hai studiato il greco antico non lo capisci. E per di più, per una di quelle strane assonanze, evoca qualcosa che ha a che fare con il mondo della cucina: il pentolone. Il pentamerone insomma è un’immensa pentola dove finiscono gli ingredienti, patate, carote, zucchine, verze, fagioli, soprattutto animali che parlano, ridono, fanno scherzi, si divertono a prendere in giro il mondo.

La cosa buffa è che non usano l’italiano, ma il dialetto di Napoli, la lingua di Totò e Peppino De Filippo, confermata anche dal sottotitolo: Lo cunto de li cunti. Il racconto dei racconti. La somma (il riassunto, la madre) dei racconti. Una specie di enciclopedia dove sono contenute tutte le possibili combinazioni narrative. Se uno apre il libro di Basile, ha tutto davanti: vuoi diventare scrittore? Questo è il tuo manuale… Basile arriva sulla terra due secoli dopo, ma salta i passaggi intermedi e se la vede direttamente con Boccaccio. Sceglie un numero meno ambizioso – non dieci giorni ma cinque, non cento racconti ma cinquanta -, cattura l’aria che si respira nel Decamerone (un’aria di scherzi e di imbrogli, un mondo da ridere) e si inventa una società di animali: qualcosa che non ha ancora l’aspetto della fattoria di Orwell, ma potrebbe giocare d’anticipo di qualche secolo.

Un affare di bestie

Quando gli scrittori vogliono dire e non dire, quando desiderano rappresentare i vizi e le virtù della società in cui vivono, non esiste escamotage più semplice che ricorrere a maiali, pecore, galline, cani, passerotti, pesci, orchi, fantasmi. È un modo come per dire: non è vero che noi umani siamo fatti in questo modo. È un affare di bestie, non di individui! Esopo e Fedro lo avevano capito da secoli. I lettori non se ne accorgono, ma in questo dizionario del vivere e dello scrivere che è lo cunto de li cunti non mancano l’astuzia, l’amore, l’inganno, la fedeltà, l’odio. Soprattutto si avverte l’aria di una civiltà che soffre ma si diverte a raccontare, sente il peso della vita, sente il fragore delle armi straniere che governano la città e trova una via di fuga nelle fantasie, nei sogni, in tutto ciò che è distante, impossibile, assurdo.

In quel regno di lontananza, dove la notte si confonde con il giorno e i miracoli avvengono con la dimestichezza che hanno le cose semplici, tutto ciò che è inspiegabile trova compiutezza e realizzazione. Soprattutto il bisogno di vivere, che è il più banale e irrinunciabile dei sentimenti umani e che in questo libro si traveste con il desiderio di narrare storie: l’unico mezzo che gli uomini hanno a disposizione per non morire o per continuare a sperare nel futuro.

Narrare vuol dire sperare

Come fa Zoza, la ragazza triste e malinconica, a cui si deve l’avventura di queste pagine. Se non ci fosse stato il suo caparbio desiderio di credere nell’amore, se non avesse voluto spendere tutta se stessa nell’azione di raccontare, sarebbe morta come un filo d’erba secca, sparita dal mondo come una dei tanti individui che si trascinano nella pena del silenzio e guardano gli altri vivere, sentendosi derubati da qualche che avrebbero meritato. Ma ci sono le armi adatte per sconfiggere il destino. Narrare vuol dire sperare. Narrare significare dare e ricevere la vita. In principio era il racconto, non dimentichiamolo.


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