Giuseppe Lupo e “Gli anni del nostro incanto”

Ha scritto pagine e pagine, negli ultimi anni, per chiarire la sua poetica antirealistica, anzi proprio il suo disinteresse (con più di una punta di fastidio) nei confronti della narrativa che si senta succube della realtà o che alla sua investigazione sia orientata: di questo soprattutto parlavano il suo Atlante immaginario (2014) e Mosè sull’arca di Noè (2016). I suoi romanzi, anno dopo anno, tutti usciti per Marsilio, sono stati un percorso di maturazione e affinamento nell’arte dell’affabulazione, nell’escogitazione di meccanismi narrativi che consentissero alla sua fantasia di correre sbrigliata, anzi di volare verso l’alto, sfidando la legge di gravità e tutte le regole del buon senso e della credibilità, come la casa verticale al centro delle memorie de L’albero di stanze (2015). In tutti questi casi le allusioni storiche, i possibili ammaestramenti morali e persino gli indizi autobiografici erano ben dissimulati e quasi abbandonati alla pagina per caso, senza turbare l’allegra risata con cui il ritratto di questo scrittore ci guarda dalla copertina dei suoi ultimi libri.

Ma nel caso de Gli anni del nostro incanto qualcosa è cambiato. Giuseppe Lupo non dismette i suoi strumenti abituali, quelli per cui è, si può forse dirlo, ormai, uno dei maestri della narrativa italiana duemillesca: prima di tutto l’invenzione di un espediente che consenta al protagonista di narrare la storia sua, della sua famiglia e di tutta un’epoca. In secondo luogo la predilezione per uno stile piuttosto lirico, elegante, specie nelle clausole dei capitoli, dove sembrano annidarsi sentenze epocali, vaticinî gravidi di futuro, nessi segreti che rinviano al capitolo che segue.

In terzo luogo, nonostante le scorribande, le avventure, i sogni, gli incontri e le scoperte, le storie di Lupo rifiutano le ambizioni epiche che non di rado appesantiscono velleitariamente il romanzo italiano (e in special modo meridionale), per nulla dotato della potenza di quello americano, che viene sostituita magari da qualche svagatezza picaresca e comica. Non c’è niente di più irritante di un romanzo d’azione e affabulazione lungo e vorticoso che, anziché catturare le emozioni del lettore, gioca la carta dell’ironia che continuamente smaschera il congegno epico e lascia il lettore nella stanza gelida della propria intelligenza. Lupo, invece, conosce bene l’arte calviniana della brevitas e forse proprio di quella leggerezza che non è fuga dalla complessità, ma spiazzamento delle logiche correnti, gusto del capriccio e della totale libertà narrativa, per non essere intrappolati nell’unidirezionalità del presente. Ma, come dicevo, qualcosa di diverso è accaduto in questo nuovo romanzo.

Ora il tono fiabesco è deposto, e quella che si racconta è la storia di una famiglia proletaria immigrata a Milano negli anni Cinquanta, testimone del boom, delle grandi imprese spaziali ma anche degli anni di piombo, e poi messa alla prova dello smembramento e dell’irriconoscibilità, proprio mentre tutta Italia, nel luglio del 1982 edifica la sua ultima auto-narrazione collettiva che riproponga intorno al gioco del pallone il vecchio mito postbellico, quello dei ragazzi italiani poveri ma belli. Non erano affatto poveri ma belli Paolo Rossi, Bruno Conti e Antonio Cabrini, ma a noi è piaciuto raccontarli così, quanto meno perché non venivano dall’aristocrazia del calcio europeo (quello inglese, tedesco e francese) e non erano ancora adatti alla laccatura glamour con cui sarà deturpato il football dagli anni Novanta in poi. In realtà era il popolo italiano a sentirsi ancora povero, ma sempre bello, dopo le ripetute crisi energetiche, le svalutazioni della lira, la ripresa dei flussi migratori e la iattura del fratricidio fra neri e rossi, con un gran numero di vittime innocenti che quelle follie non le comprendeva nemmeno.

Nei giorni delle ultime tre partite degli azzurri (contro il Brasile, la Polonia e la Germania), una ventunenne di nome Vittoria (appunto…) cerca di risvegliare alla coscienza sua madre (chiamata Regina) che, senza ragioni cliniche plausibili, ha improvvisamente perso il contatto col presente e col passato, salvo riuscire a riafferrarne qualche lacerto solo quando le viene messa sotto gli occhi una fotografia trovata per caso sul settimanale «Gioia», che riproduce proprio lei, Regina, con in braccio la piccola Vittoria in sella a una Vespa guidata con spavalderia dal marito Luigi (detto Louis l’atomico o il sovietico) che, a sua volta, tiene fra le gambe il primogenito Bartolomeo, detto l’Indiano. È una foto del 1962, di cui i protagonisti erano rimasti per vent’anni inconsapevoli, che li ritrae nell’apogeo della loro euforia milanese, quando erano convinti che lavorare (all’Innocenti lui e da un parrucchiere lei), nella capitale economica del Paese fosse la maggiore delle fortune possibili. Eppure quel decennio si chiuderà con la madre di tutte le stragi italiane, che fu compiuta proprio a Milano (l’eccidio di piazza Fontana, non distante dal Duomo) che dimostrerà che evidentemente quell’ebbrezza dell’uguaglianza dei consumi e degli stili di vita (significata dai numerosi elettrodomestici di cui Louis infarcisce casa sua, a forza di cambiali) era solo un’illusione. Delle macchinazioni oscure che si giocano alle spalle degli italiani in quegli anni ha cercato di scriverne, come si sa, Pasolini nel suo incompiuto Petrolio (e più tardi, con diversi risultati, De Cataldo con Romanzo criminale).

Lupo, per la migliore riuscita del suo apologo, non s’infila nella scrittura d’inchiesta; sceglie, invece, il romanzo ‘simbolico’, ben caratterizzato dalla sorte dei due personaggi più ‘scuri’ della famiglia. Da un lato c’è la madre, che aveva spinto con la sua bellezza e il suo ottimismo la famiglia, ma poi crolla dopo la morte dell’amato marito e finisce silenziosa e immemore in un letto d’ospedale, come a significare che, nonostante l’euforia collettiva di questi incipienti anni Ottanta (che saranno ricordati come quelli della ‘Milano da bere’), lei non può riconoscersi più nella storia degli altri: le prossime favole di una grande famiglia televisiva e consumistica non le apparterranno più.

Dall’altro c’è Bart l’Indiano che quella leggerezza del boom non l’ha mai sentita, perché, nato negli stessi giorni d’agosto del 1956, mentre morivano 262 minatori a Marcinelle, in Belgio, porta dentro il presentimento del rovescio doloroso di quegli anni del nostro incanto. Lui taciturno lo è sempre stato, a lui la vita «sbarluscenta» della grande Milano delle vetrine, delle fabbriche e del Pirellone non ha mai regalato nessuna illusione. Quando a un’ancora felice mamma Regina il cielo di Lambrate pareva proprio azzurro, all’Indiano doveva già apparire sconsolatamente grigio; e quando il padre, a furia di stupirsi dietro alla sua stessa immaginazione di satelliti artificiali e di viaggi spaziali, ci rimane letteralmente secco dinanzi all’allunaggio di Armstrong, l’Indiano, appena tredicenne, non era già più a casa. Aveva scelto il seminario e subito dopo la mistica opposta, quella dell’estremismo rosso, per verificare se davvero nei sogni della generazione che aveva fatto nascere la Repubblica, «nelle auto prese a rate», «nei miti eterni della patria o dell’eroe», nel «perbenismo interessato» e nella «dignità fatta di vuoto», come Guccini faceva cantare ai Nomadi, «Dio è morto».

Aveva dimenticato, Bart l’Indiano, di ascoltare gli ultimi versi dell’inno di quella seconda generazione repubblicana: una «generazione» che voleva sperare in «una rivolta senza armi perché noi tutti ormai sappiamo che […] in ciò che noi crediamo, […] in ciò che noi vogliamo, […] nel mondo che faremo, Dio è risorto».

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