#lamialinguacomeCanetti

Un bimbo nella Vienna d’inizio secolo, trascorre parte del suo tempo con una giovane governante, abituata a incontrarsi con il fidanzato mentre esce a passeggio, durante le ore di lavoro.

Di quegli incontri nessuno deve sapere niente, soprattutto i genitori del bimbo, pena una terribile punizione: il taglio della lingua con le forbici. Quel bimbo, che si chiama Elias Canetti, non soltanto obbedirà alle minacce del fidanzato della governante, ma conserverà per tutta la vita il pericolo di perdere la lingua fino al punto da vivere nell’ossessione di rimanere muto. Ma sarà questa ossessione a dargli la spinta per una vocazione che ha a che fare con la lingua, cioè con le parole, e che lo porterà a diventare scrittore.

Il piccolo Canetti non lo sapeva, ma deve tutto alla governante e al suo rozzo fidanzato se negli anni successivi sarebbe arrivato a vincere, così come avvenne nel 1981, il Premio Nobel della Letteratura. Il suo libro, che sarebbe stato pubblicato con il titolo La lingua salvata (1977), avrebbe fatto di Canetti uno dei maestri della letteratura europea del Novecento. In quel libro autobiografico c’è tutta la storia di una vocazione, ma anche la vicenda di una famiglia ebrea, di una città, di una nazione. È un libro costruito per strati e dove lo scrittore continua a nascondersi dietro questo episodio, all’apparenza marginale e tuttavia fondamentale per il suo destino.

Mentre lo leggevo, io ci trovavo gli ambienti di una Vienna scura e invernale, una città che nella mia immaginazione poteva somigliare alla Praga di Kafka: buia perché invernale, con gli appartamenti dai balconi chiusi da tende impolverate, persiane chiuse, pavimenti di legno. Le voci di questa città arrivavano ovattate dal maltempo, come se le nubi d’acqua pesassero così tanto da desiderare di posarsi sulla terra e restarci.

Proprio in quei giorni mi stavo preparando a partire per Milano, dove mi sarei iscritto all’università, e l’immagine di Milano coincideva con quella di Vienna o di Praga: una città di un’Europa senza luce, sufficientemente predisposta all’organizzazione delle giornate, ma lontana dal mondo in cui mi ero formato, lontana da quello che chiamavo “casa” e che era nulla più di un’appartenenza fugace, un segmento di un tempo che era stato pieno di parole e che poi a un certo punto si era fatto inaccessibile e muto.

La lingua di Canetti si era salvata dalle forbici, le sue parole non si erano perdute: questo a me importava. E questo restituiva anche a me la speranza che, malgrado avessi perso il pericolo di perderla, anch’io, come lui, avrei avuto una mia lingua da salvare, magari a costo di fuggire dal luogo dov’ero nato, fuggire per sempre, allontanarmi dal pericolo di finire sotto minaccia, come il piccolo Elias, e di non poterlo dire più a nessuno.

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